Capita a molti scrittori, il paradosso di riuscire a comprendere il vero senso del loro libro solamente con il finale. E dall’altra parte, non è usanza singolare che molti lettori scelgano un libro dalle frasi dell’ultima pagina. L’interpretazione semplice è una verità difficile: il significato delle cose è nel modo in cui finiscono. Nel frattempo, nel mezzo: il niente. Paradossale, tanto quanto può apparire innovativo oggi Milan Kundera con L’insostenibile leggerezza dell’essere. Perché, se lo scrittore ceco assegnava all’essere il potere della variazione, l’incessante possibilità del tutto, oggi la Pandemia fa lo stesso esercizio con il niente.

Ma la Pandemia non è ancora finita, allora lo sconforto di non aver capito ancora nulla ci rende forse spaesati. Se è vero che solo a posteriori un’azione – ma anche una non azione – diventa esperienza, allora tutto potrebbe apparire ancora più frustrante. Eppure, un grande problema della Pandemia – del modo in cui è stata percepita – è stata viverla come l’attesa di un tempo, piuttosto che un momento. 

E, aggiungerei, un momento raro per poter finalmente avere “tempo per perdere tempo”. Un niente che fosse inteso come la leggerezza del possibile, l’opportunità di poter sfruttare – con termine così drastico – il tempo morto per sentirsi più vivi. E nella maniera più intima e vera che la Pandemia ci permettesse. Al contrario, l’unica sensazione che è rimasta di questo periodo è la perdita. E che sia stata in termini vitali è la vera tragedia dell’evento. Ma in termini morali, forse, che si definisca la Pandemia come perdita è un dramma altrettanto serio. 

Il valore della riscoperta nella pandemia

Un grave errore dell’umanità è affibbiare al concetto di “niente” la mancanza di significato della nostra esistenza. Anziché cogliere il vantaggio del niente di potersi aprire a qualsiasi opportunità. Ma è forse nella vastità della possibilità che si cela il peso insopportabile e insostenibile che ci suggeriva Kundera. 

È dalla tragedia, dalla crisi, dalla rottura, dal dolore che esce fuori la sostanza: la verità. Per cui che peccato, che spreco, interpretare mesi e mesi di niente come qualcosa di immobile. Dicevamo di non avere mai tempo di leggere libri, e durante il lockdown abbiamo letto meno di quando eravamo troppo indaffarati. Ci lamentavamo dello stress quotidiano, ma neanche a casa siamo riusciti a godere della calma. Forse, allora, è una questione di intenti, non di modalità. 

Quello che stiamo vivendo non è uno spreco, ma l’opportunità di recuperare l’autenticità delle cose che facciamo. Quello che abbiamo vissuto, come ha spiegato il professore e pedagogista Franco Nembrini in un’intervista, è “un’esperienza straordinaria”. Il vero rimorso non è aver perso occasioni di vita in questi mesi, ma aver sbagliato a vivere questa situazione. Aver – in un certo senso – sfruttato nella maniera errata l’opportunità di riscoprire noi stessi.

In un tempo di cui implicitamente avevamo bisogno e che – per condizioni socio-economiche e sanitarie – ci auguriamo finisca. 

La pandemia: cosa ci ha portato e cosa ci ha tolto?

La tragedia è solenne, c`è un’unica nobile dignità nel dolore: la verità. Il vero dramma, allora, del niente è aver dato modo a tutti – anche a chi non si interrogava – di essere più sinceri e autentici. Con noi stessi e con la realtà. Da una parte l’istinto della riscoperta, dall’altro lo sconforto della nostalgia. 

Ma oltre la sfacciata solitudine, la consapevolezza dei nostri sentimenti, l’eco rumoroso dei rimpianti che nella noia lunghissima della pandemia hanno dominato le nostre paure, c’è qualcosa di ancora più profondo. 

L’aumento di fragilità psichiche durante la pandemia denuncia l’equivoco della vita e dell’educazione: la paura dell’inaspettato.

La pandemia ci ha obbligati alla decostruzione della struttura predefinita in cui vivevamo.  Che si traduce nella presunzione di avere il controllo. Siamo stati costretti alla nostra interiorità, alla comprensione della vita e alla distruzione delle convinzioni che governavano il nostro Millennio. La più grande: l’idea della potenza. 

È una struttura di decostruzione che parte da qui: il bisogno sistemico dell’uomo di dover definire la Storia sulla base degli Eventi e non del trascorso. Per cui la Pandemia, soltanto questa, ora sembra segnare definitivamente una pagina di storia che invece dura da decenni, ovvero quella del potere. A questo punto della storia la Pandemia ci ha insegnato – forse ricordato – che costruire presuppone la distruzione. La potenza, su cui le evoluzioni della nostra epoca vantano i successi, da una parte costruisce e dall’altra distrugge. 

Ma la Pandemia ci ha svelato un grande segreto: possiamo essere potenti, ma non possiamo avere il controllo. Se la guerra lo dimostrava in maniera drastica, la pandemia ce lo ha insegnato gradualmente. E non ha ancora finito. La vera sfida, in termini antropologici, sarà non perdere il patrimonio di consapevolezze della pandemia. Sempre che ce ne siano. 

“Che follia di vita facevamo prima?”

La Pandemia ci ha sfilato la vita letteralmente, quella che tutti desideriamo, di cui sentiamo mancanza ma soprattutto bisogno. Il vero sacrificio della Pandemia non è quello che ci ha tolto, ma averci negato il desiderio. Abbiamo desiderio di tornare in mezzo alla gente, ma abbiamo paura di chi ci sta intorno. E questa è una delle prime, tristi, verità della pandemia.

La normalità che tutti bramiamo tornerà così frenetica da non darci di nuovo più tempo. Questo è il momento di comprendere quello che ci è accaduto, di leggere nella tragedia la nostra tragedia. Di riconoscere il male, imparare ad ascoltarci. 

“Che follia di vita facevamo, prima?” si chiede Alessandro Baricco in Quello che stavamo cercando. E la risposta è quasi epifanica: “era una follia andare a quei ritmi, disperdere così tanta attenzione e sguardo, smarrire qualsiasi intimità con se stessi.” 

Speriamo che tutto torni come prima? Speriamo di no. 

Ce ne saremmo andati tutti:
nei pianti dei bambini
che non hanno paura
della strada,
 
come il terrore meraviglioso
d’una donna che si fa madre.
 
Solo l’implicito
ci salverà dal reale:
non resterà che l’odore di arance,
una risata fuori campo,
l’eco infallibile del niente.



 

Rossella Papa