“La cultura della cancellazione (la cancel culture) è una dittatura“. Questa e altre affermazioni sono le tipiche lacrime da coccodrillo. Giornalisti, politici e opinionisti vari piangono dopo aver ricevuto una valanga di segnalazioni e lamentano che “Non si può più dire nulla“. La loro pretesa è di lanciare in rete messaggi di odio razziale, omotransfobico, abilista e sessista. Pretendono anche che il pubblico, soprattutto quello social, stia in silenzio ad ascoltare e/o leggere commenti personali spacciati per informazione pubblica e insulti per battute.
Le minoranze hanno detto basta e la maggior sensibilità degli ultimi anni ha fatto il resto. Ci si riunisce contro il potente (in questo caso rappresentato dal giornalista, dal comico, dal politico etc) per buttarlo giù dalla rete e cancellare l’odio. Ma non è democratico, è una dittatura, giusto? Non proprio. La legge infatti dovrebbe proteggere le minoranze (per il momento solo le categorie all’interno della cosiddetta legge Mancino) dall’incitamento all’odio, eppure sappiamo benissimo quanto i tempi siano lunghi o quanto spesso la legge non venga applicata a determinati casi (vedi il Ddl Zan e perché non è stato ancora approvato). La mobilitazione online funziona e spaventa a tal punto che si urla al politicamente corretto, alla cancel culture e infine alla censura. Spaventa così tanto che è diventato argomento politico.
Cancel culture: da richiamo a cancellazione, la politicizzazione che depotenzia
Le minoranze, riunite grazie ai social media in gruppi d’appartenenza, fanno sentire la propria voce e portano nel dibattito esperienze e sensibilità che non possiamo più ignorare. Parte dal basso quindi l’idea di richiamare l’attenzione pubblica verso un determinato comportamento sbagliato. Possiamo discutere quali comportamenti, affermazioni e concetti siano sbagliati, ma ammettiamolo sinceramente: non c’è giustificazione al razzismo, all’omostansfobia, alla sinofobia, al sessismo e all’abilismo. Non si può giustificare la “libertà di espressione” di una categoria privilegiata che aiuta a creare, mantenere e alimentare un clima di odio ed esclusione. Non si può giustificare l’odio. Parte da una battuta, diventa un insulto virale da ripetere per strada, nelle scuole, online e infine, in determinati e “sfortunati” casi si trasforma in violenza verbale o fisica.
Il caso di Gerry Scotti e Michelle Hunziker è stato un esempio di questo fenomeno. Non si può più scherzare imitando le persone cinesi? “Questo pensiero è alimentato dall’illusione che quello che vediamo in televisione in realtà non ha un impatto sulla vita di noi persone reali […] non si pensa alle conseguenze“, ha commentato Momokabana sul suo profilo Instagram. Cosa è successo dopo? Alle scuse obbligate di Hunziker (per giustificarsi ha detto di avere due antenati asiatici nel ‘700 e ‘800) sono succedute alcune interviste che si potrebbero definire “pilotate”. In questo caso si è applicata la vera censura? Il primo esponente della comunità cinese intervistato è stato silenziato perché ha detto espressamente che Striscia la Notizia aveva proposto e veicolato un messaggio sbagliato.
Ha scritto: “Mi viene il dubbio che la verità è che non hanno trovato quello che volevano da me, cioè non sono riusciti a strumentalizzarmi“. L’intervista andata in onda alla fine è quella di un altro esponente ed è stata presentata come: “Striscia e i rapporti (ottimi) con la comunità cinese”. Questo è quello che è stato denunciato da Momokabana, sotto potete leggere il contenuto degli screenshot.
Insomma Gerry Scotti e Michelle Hunziker continuano ad avere spazio mediatico, la cancel culture li ha solo spettinati, non certo cancellati; mentre le persone cinesi, per le strade e online, vengono ancora insultate. Problemi loro dopotutto.
Richiamo e cancellazione, una deriva estremista della cancel culture?
C’è uno squilibrio di potere evidente in questo conflitto. In questo caso da una parte ci sono i vip amatissimi d’Italia “nella posizione di influenzare il dibattito pubblico avendo una grossa risonanza mediatica” (Giulia Barelli – Bossy) e dall’altra una minoranza già sotto attacco per la crisi sanitaria in corso. Questo schema, questa reazione in difesa dello status quo fa apparire ogni forma di ribellione come attacco, come complotto contro la nuova presunta minoranza, quella bianca, etero, benestante.
La cancel culture quindi non sbaglia mai? No, anzi. Una delle derive della cancellazione è proprio quella di aver perso l’iniziale funzione per la quale si richiamava l’attenzione. Ovvero obbligare il soggetto a prendere coscienza delle azioni o parole e metterlo nella posizione di scusarsi. Se le scuse non sono più accettate, se si festeggia la cancellazione di qualcuno, se si esclude la possibilità di un miglioramento, di un cambiamento la cancel culture diventa solo un’azione punitiva e per questo aspramente criticata.
Domandiamoci però se senza lo spauracchio della cancel culture alcune istanze si sarebbero comunque palesate. Probabilmente no. Il potere dei social, delle minoranze riunite sulle piattaforme, è esattamente questo. E a dargli tanto potere è lo stesso capitalismo, che pur di vendere, di raggiungere l’obiettivo agisce seguendo gli umori popolari. Tra l’altro è proprio questa la cancel culture sotto attacco da parte degli accademici, quella politicizzata. La cancel culture, come qualsiasi altro fenomeno di massa, presenta anche casi estremi dopotutto.
Come zittire i piagnoni sulla cancel culture
I piagnoni (espressione utilizzata nel ‘500 per intendere dei bigotti) sono quei privilegiati che puntano il dito contro chi davvero quotidianamente subisce discriminazione e cancellazione. Non suona già in questo moto patetico? Al contrario delle privilegiate e accademiche firme dietro la lettera contro la cancel culture, Alexandria Ocasio Cortez si è espressa sull’ipocrisia di tale gesto:
“People who are actually “cancelled” don’t get their thoughts published and amplified in major outlets.
[…]
Odds are you’re not actually cancelled, you’re just being challenged, held accountable, or unliked” (Twitter).
I piagnoni si lamentano della cancellazione passando per riviste prestigiose e account personali da milioni di follower; mentre i veri discriminati e cancellati vengono zittiti dalle piattaforme stesse, silenziati perché fastidiosi. “Non si può più dire nulla” è una frase utilizzata dai soggetti privilegiati “che non conoscono le realtà di marginalità e oppressione” (Valeriafonte.point, secondo account perché il primo è stato censurato – Instagram).
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Articolo di Giorgia Bonamoneta.