Nella narrazione del costume sociale, le partite degli Europei 2020 hanno definito un ritmo di risveglio emozionale di cui tutti avevamo bisogno. Ma ora che l’Italia ha vinto cosa rimane dell’euforia? Sociologhi a parte, sappiamo tutti quanto gli Azzurri sono stati fondamentali per una ripartenza collettiva per la sensazione di normalità. Al di là delle critiche e del disdegno per un tifo sregolato che più che aggregare inneggiava alla violenza, la “scusa” degli Europei ci ha spinto a un pensiero comunitario che negli ultimi tempi era per di più idealizzato.
Per quanto io poca ne capisca dei rigori, l’occasione degli Europei mi ha coinvolto per un senso comune di allegria e – senz’altro – un patriottismo moderno. Quando il 17 marzo 2020 viene rinviato ufficialmente l’Europeo per emergenza Covid, lo sconforto è stato l’unico movente empatico a coinvolgere la comunità. Da qui, il passo per la distanza è breve: se da un lato è vero che il dolore avvicina, è altrettanto plausibile quanto la paura e lo scoraggiamento rafforzi il senso di solitudine. Lo spaesamento collettivo del rinvio degli Europei 2020 era parte di un processo di accettazione di un’altera realtà che spaventava la comunità. È la paura che frattura la società, che aizza la violenza, la stanchezza che tramuta in isteria.
Europei 2020, il senso di rivalsa
Eppure, all’alba di un ritorno è stato lo sport a innescare una fiducia collettiva in un senso di rivalsa, che è per prima cosa un gioco, e poi speranza. Gli Europei 2020, nel momento storico di ripresa sociale, hanno rappresentato il momento di aggregazione per eccellenza: un senso di solidarietà spontaneo che dal campo si trasmetteva ai miliardi di tavolini dove si erano riuniti amici per tifare l’Italia.
Forse una fotografia illusoria, una mera e vana puntata di una stagione ancora purtroppo difficile, eppure un momento reale di una realtà quasi dimenticata a cui tutti facevamo parte. Ci siamo quasi dimenticati, ieri sera, la delusione del nostro tempo. Come un simbolo di rinascita, ci siamo illusi che il tradimento del momento storico non ci ha abbattuti. Quasi che il desiderio e la fame sia più forte di prima. Ma abbiamo bisogno del pretesto per trovare occasioni di unione, sentimenti identitari? Perché ora che gli Europei sono terminati, ci sentiamo forse già di nuovo soli, con la monotonia di un tempo ristretto, la frustrazione di una condizione limitata. L’Italia benedetta, l’Italia maledetta che si sente unita in un gioco goliardico per ritrovare l’anima sociale. Ma in fondo, per ora, va bene così. A patto che la vittoria italiana sia davvero una lettura di riscatto verso una solitudine che ci rende bestie o bambole di pezza. Un incanto che passa. E ora, che ci inventiamo?