Un’insegnante che firma il contratto di lavoro vestita da sposa, il giorno del suo matrimonio, o una ragazza che ripassa per l’esame del giorno dopo, appena partorito, ancora nel letto d’ospedale. Queste sono solo alcune delle foto diventate virali ultimamente sui social, accompagnate da didascalie come: “Questo per ricordarci di quanto siamo fantastiche”. Ma le immagini, che raccolgono commenti di ammirazione e sostegno, sono davvero il ritratto della contemporaneità? Di ciò a cui è giusto aspirare?
Siamo cresciuti con l’idea inculcata dagli standard sociali, che lavoro e realizzazione professionale siano ‘tutto’ e vengano prima di ogni cosa: famiglia, amore e soprattutto salute mentale. Alla propria bambina la neomamma dei social dovrebbe dire “benvenuta in un mondo in cui profitto e guadagno saranno ciò a cui più dovrai puntare”? Firmare il contratto di incarico annuale il giorno delle proprie nozze per non essere licenziate o dividersi tra mille impegni, correndo senza sosta per una scelta che sembra personale ma non lo è, sono istantanee di una vita di gesti che sanno più di abnegazione che eroismo.
Realizzazione personale e professionale
“Non è un posto fisso ma un semplice contratto annuale, sono stata COSTRETTA ad andare a scuola a firmare, altrimenti avrei perso un anno di lavoro.”
Ci hanno fatto credere che la realizzazione personale coincida per forza con quella professionale. Ma la mancata differenziazione delle due sfere è solo sintomo di un impoverimento dell’individuo e di una pressione sociale ormai difficili da manovrare. Se Carmela Santoro, la sposa costretta a firmare il contratto ‘in bianco’, (professoressa di un Istituto di Martina Franca), e come lei centinaia di giovani che ogni giorno sgomitano per raggiungere una posizione lavorativa appagante o sufficiente a mantenersi, non fossero stati cresciuti a ‘latte e ansia sociale’, quelle foto sarebbero davvero il simbolo del futuro? O forse di una generazione precaria a cui è stata raccontata una favola?
E se sei donna, l’aspettativa sociale incombe su di te con peso doppio. Non è un caso che le protagoniste di queste vicende agghiaccianti siano quasi sempre ragazze. L’eccellenza è una narrazione tossica. E’ quella che vuole la donna moderna battere ogni record, riuscire sempre, investire ogni energia ed “eccellere il doppio di un uomo” per poter carpire la tanto agognata “realizzazione di sé”.
Il tutto non fa che creare falsi miti, standard impossibili da raggiungere poiché inesistenti. Così impariamo ad accontentarci e a scendere a patti. Lavorare 12 ore al giorno per una paga ai limiti dello sfruttamento. Finire per incarnare davvero l’idea stereotipata dello yuppie frustrato dalla vita moderna: schiavo del consumismo, depresso, insonne, ansioso.
L’immagine di una generazione
Il mito del lavoro si sfalda, lasciando l’intera classe dei Millennials che ha cresciuto, a brancolare nel buio, alienata e avvilita, ma con lauree e titoli accademici in mano. Gli stessi che forse, per i più fortunati, troveranno senso dopo anni di sacrifici e instabilità lavorativa. La pandemia ci ha aperto ulteriormente gli occhi. Abbiamo capito che la ricerca della serenità non deve per forza calcolarsi tramite fatturato annuo o posizione lavorativa più prestigiosa o socialmente ritenuta accettabile. Ci ha dimostrato che, forse, il vero valore dell’esistenza è dato da brevi momenti irrepetibili, che è giusto potersi godere senza la pressione sociale del domani.
La surreale vicenda di Carmela deve farci riflettere. Come lei, ognuno di noi avrebbe fatto lo stesso per campare. Il vero dramma riguarda l’incertezza dell’avvenire, preoccupante sostrato della nostra società, e come essa alimenti sempre più il senso di insoddisfazione perenne con cui ci siamo ritrovati a dover convivere. Il miraggio della realizzazione professionale ci ha privati del sonno, ha guidato fin troppo le nostre scelte e ci ha resi succubi di una percezione alterata del futuro. Oggi, dobbiamo re-imparare a farlo nostro.
Arianna Panieri
seguici su Facebook, Instagram, MMI