«Tutto è cominciato con una soffiata», racconta il reporter del Washington Post Craig Whitlock. «Nell’estate del 2016, avevo sentito che un’agenzia federale poco nota, chiamata Special Inspector General for Afghanistan, aveva intervistato Michael Flynn, generale in pensione diventato famoso perché faceva campagna elettorale per Donald Trump. Il governo federale lo aveva intervistato sulla guerra perché era stato a capo dell’intelligence militare della Nato e degli Stati Uniti in Afghanistan durante l’amministrazione Obama. Era noto come un generale molto franco, non aveva paura di criticare nessuno. Pensavo che sarebbe stato facile ottenere una copia delle sue dichiarazioni, invece fu necessario fare causa per averle. Flynn sosteneva che il governo non era stato onesto perché dichiarava che stavamo vincendo, mentre in realtà stavamo perdendo».

Flynn non era una fonte del tutto obiettiva, ma il governo non intervistò solo lui: furono sentite quasi mille persone che avevano avuto un ruolo nella guerra a partire dal 2001. Dopo tre anni di cause, il Washington Post è riuscito a ottenere quelle testimonianze. Il verdetto: George W. Bush, Barack Obama e Donald Trump sapevano «che non c’erano prospettive realistiche di vittoria in Afghanistan, ma nessuno di loro ha voluto ammettere la sconfitta». Whitlock tre volte finalista al Premio Pulitzer, lo racconta in un libro-caso, The Afghanistan Papers. A Secret History of the War , uscito negli Stati Uniti il 31 agosto e che in Italia viene pubblicato da Newton Compton il 14 ottobre, con il titolo: Dossier Afghanistan. La storia della guerra attraverso i documenti top secret .

«Era il dicembre 2019 quando pubblicammo i documenti, nel bel mezzo dell’ impeachment di Trump. Temevo che pochi avrebbero prestato attenzione e invece fu il nostro progetto più letto dell’anno. La reazione fu di rabbia. Bush, Obama e Trump non solo non avevano ammesso la sconfitta, ma avevano continuato a promettere la vittoria. Leggendo i documenti era evidente il contrasto tra ciò che veniva detto in pubblico e ciò che era noto in privato, cioè che la guerra non si poteva più vincere».

«L’America e la Nato hanno collaborato con personaggi problematici: volevano rafforzare un governo che la popolazione non amava. Gli afghani ritenevano che i loro leader avessero avuto tutte le opportunità e le risorse per risollevare il Paese ma erano troppo corrotti o incompetenti per farlo. A molti afghani non piacciono i talebani ma disprezzavano il proprio governo. E nelle zone rurali, se costretti a scegliere, in molti casi preferiscono i talebani. Moltissimi afghani vogliono semplicemente che il conflitto abbia fine. Il problema è che gli Stati Uniti hanno cercato di dividere il Paese tra buoni e cattivi e, come si vede dai documenti nel mio libro, avevano una visione semplicistica: i talebani erano i cattivi, l’alleanza del Nord e i Signori della guerra i buoni. Ma il popolo afghano non la vedeva così: gli Stati Uniti si sono alleati con personaggi corrotti o molto brutali. Stiamo stati là vent’anni e non abbiamo capito il Paese».