Digitando nella barra di ricerca di Google “i milanesi sono” i primi risultati che escono li identificano come “antipatici”, “freddi”, “ricchi”, “interisti”. E se vi dicessimo che sanno anche essere dolci? Quale categoria di milanese lo è? Quella che rientra in una scatola cubica con su scritto Panettone.
Il “Panattón”, in milanese pane, è un dolce della tradizione artigiana milanese, forse preparato secondo la tradizionale ricetta natalizia già a partire dal Medioevo. L’impasto, nella versione classica, è arricchito con l’uvetta, che sta a rappresentare la richezza, e i cubetti d’arancia canditi che simboleggiano l’amore.

Sulla nascita del panettone

In molti si contendono la paternità, diverse sono le leggende che ruotano intorno a questa ricca nuvola gialla, ma tra tutte quella più accreditata sembra, ad oggi, quella che riconosce anche il pasticcere Iginio Massari.
Siamo nel XV secolo e Toni, garzone di un fornaio della Milano di Ludovico il Moro, fa cadere nell’impasto del pane un po’ di uvetta e qualche candito, inconsapevole che la sua sbadataggine lo glorificherà ancora nei secoli a venire.
Un’altra versione della leggenda vuole Toni sguattero di cucina della famiglia Sforza. La sera della Vigilia di Natale il cuoco avrebbe bruciato il dolce per il cenone e Toni avrebbe recuperato la situazione impastandone uno nuovo, questa volta con lievito, uova, zucchero e canditi. Il risultato, tanto apprezzato dai commensali, sarebbe stato così chiamato “Pan di Toni”.

Il giovane milanese ha però altri rivali nel riconoscimento del titolo di inventore del panettone, quali Ughetto degli Atellani e Suor Ughetta. Più della storia, ci si contende la nascita di un vero e proprio rito entrato nell’immaginario collettivo di innumerevoli generazioni di italiani, e non solo. Per questo, più che nomi e cognomi ricerchiamo la vera origine del panettone in quella che è anche l’unica certezza che abbiamo, ovvero nell’usanza diffusa dal Medioevo di celebrare il Natale con un pane che fosse, semplicemente, ricco.

Il Rito del Ciocco

Sin dal tardo Quattrocento, Giorgio Valagussa, precettore di casa Sforza, attesta la consuetudine del “Rito del Ciocco” e la conferma anche Pietro Verri nella “Storia di Milano” edita tra il 1782 e il 1799. La tradizione era pressappoco questa: la sera del 24 Dicembre si poneva sul camino un grosso ciocco di legno e si portavano in tavola tre grandi pani di frumento. Tale farina era una materia prima di gran pregio in quel periodo, basti solo pensare che a tutti i forni di Milano – ad eccezione del forno Rosti – era impedito usarla durante l’anno.
Il capofamiglia serviva una fetta del ricco pane a ciascun commensale, conservandone soltanto una per l’anno successivo a simboleggiare la continuità.

Il susseguirsi degli eventi vede la ricetta del panettone perfezionarsi col passare del tempo, in particolare a partire dall’Ottocento quando il Panattón diventa Panattón di Natal. Si aggiunge più burro, ma anche il lievito che inizialmente nel pane di frumento non c’era, di conseguenza anche il dolce cambia aspetto e diventa più alto. Negli anni Venti del Novecento, infine, Angelo Motta inforna per la prima volta l’impasto in una forma tonda di cartapaglia. È cambiata l’altezza, la composizione, la diversa distribuzione degli ingredienti, ma il rito collettivo, dopo tanto tempo, la sera del 24 Dicembre è ancora lo stesso.

Qualcuno ha portato il panettone al cenone della Vigilia e, dopo l’ultima portata, lo pone in tavola. C’è chi si occupa di tagliarlo e inizia lungo tutta la tavola il passamano delle fette che fanno capolino dal tovagliolo. Una prima sbirciatina a scegliere quella che abbia più uvetta, o quella che ne abbia di meno; il primo morso o il primo ciuffo di impasto strappato con le dita: ognuno ha i suoi gusti e anche il suo modo di gustarlo. Credo invece che non si osservi più quel rituale per cui si conserva una fetta del panettone per l’anno successivo. Non tutte quelle che diventano tradizioni sono per questo anche delle idee geniali.

Giorgia Lanciotti

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