Tutto nell’esistenza di Walt Kowalsky ha l’odore stantio di un passato cristallizzato: gli orrori subiti e inferti in guerra che le semplificazioni religiose del giovane padre Janovich (Christopher Carley) non possono intaccare, la storica Gran Torino che cura con maniacale attenzione, la bandiera a stelle e strisce che garrisce provocatoria dal balcone di casa in un quartiere ormai a maggioranza asiatica.
Walt Kowalsky (Clint Eastwood), veterano della guerra in Korea e della catena di montaggio fordista, è un uomo anziano che non riconosce più quella patria per cui ha combattuto e prodotto con fede cieca.
“Gran Torino”: non è un paese per vecchi
Ha appena sepolta l’amata compagna di una vita, figli e nipoti lo percepiscono come un dinosauro di cui liberarsi nella maniera più delicata possibile, il quartiere in cui ha sempre vissuto non è più quello di una volta. Svuotato della classe media bianca che l’aveva popolato, ora è un sobborgo difficile infestato di gang giovanili nere, latine e asiatiche. La meravigliosa Ford Gran Torino del 1972 che custodisce con estrema cura in garage, diventa l’oggetto delle attenzioni di una di queste. Quella che inizia come una guerra esistenziale per la difesa della propria identità, diventerà per Walt un percorso di maturazione che lo porterà a mettere in discussione i dogmi fondativi della sua intera esistenza.
Walt Kowalski è un americano come non ne fanno più, pensa lui. Reduce di guerra, intrinsecamente razzista quando non misantropo tout court, convinto sostenitore della mano armata e della tutela innanzitutto formale della proprietà. Esprime giudizi lapidari con uno sputo a terra e sembra capace di instaurare un rapporto decente sono con quel guido del proprio barbiere. Ma è anche un uomo che, arrivato al tramonto della propria esistenza anche a causa di una malattia terminale e messo davanti a delle contraddizioni che la propria etica non gli permette di ignorare, ha il coraggio di mettere in discussione, assieme agli stilemi della propria formazione, lo spirito fondativo della cultura bianca di un’intera nazione.
Gran Torino: la sintesi di una vita intera
Complice la vicinanza con la sveglia vietnamita Sue (Ahney Her) e l’introverso fratello Thao (Bee Vang), Walt scopre progressivamente che le cose sono più complicate, o più semplici, del dividersi in opposte trincee e determinare il valore di una persona dalla proprio etnia, provenienza o classe sociale. Lontano da qualunque pretesa didascalica e retorica buonista, Eastwood sa mettere in scena una pellicola che puzza dannatamente di realtà, dolore e di Stati Uniti d’America: sofferta, misurata e tragicamente umana, la vicenda di Walt sa darsi diversi livelli di lettura, tutti cuciti intorno al messaggio che la vita del protagonista, come quella di ognuno, ha una scadenza, ma non è mai troppo tardi per concederle di evolversi.
Pare, in un certo qual senso, la definitiva eclissi esistenziale e la redenzione di quell’ homo americanus che ha segnato così grande parte della sua carriera di attore e un’intera tradizione narrativa: non a caso Eastwood gli e si assegna lo stesso nome del brutale e crudele protagonista di “Un Tram chiamato desiderio” della pièce di Tennessee Williams. Pellicola enorme, emozionante e forse punto più alto della intera carriera del Clint Eastwood regista.
Andrea Avvenengo
Seguici su Facebook, Instagram, Metrò