Robert Nesta Marley nasce a Nine Mile, un villaggio della Giamaica, il 6 febbraio 1945 da madre giamaicana e padre britannico. Da piccolo, insieme a sua madre, va a vivere a Kingston e si confronta con un contesto tra i più duri e poveri del mondo di allora. Discriminato perchè non abbastanza alto, con una carnagione non abbastanza bruna, ben presto trova rifugio nella spiritualità e diventa seguace del rastafarianesimo.

Nel 1964, insieme a Bunny Livingston e Peter Tosh forma il gruppo reggae The Wailers. Se Marley fino ad allora aveva avuto modo di mostrare il suo talento in alcune collaborazioni occasionali con cantanti giamaicani, da questo momento fa diventare la sua voce veicolo di molto altro.

Bob Marley: canzoni reggae per la libertà

Nei suoi testi Bob Marley affronta temi come l’uguaglianza e la libertà; la lotta contro l’oppressione sia politica che razziale; canta a favore dell’azione per raggiungere unificazione dei popoli e la pace.
Il primo album dei Wailers fu “Catch a fire”, pubblicato nel 1973, riscosse successo a livello internazionale. L’anno successivo la band pubblicò “Burnin”, poi si sciolse.

Bob Marley fece il suo ingresso come solista nel mercato musicale internazionale con il singolo “No woman, no cry”, estratto dall’album “Natty Dread”, e fu subito un successo. Seguì la pubblicazione di “Rastaman vibration” nel 1976 che lo consacrò definitivamente rappresentante della musica reggae giamaicana nel mondo.

Con ritmi trascinanti ed orecchiabili, sonorità allegre che rimandano all’atmosfera giamaicana, Bob Marley ci ha parlato di amore e fratellanza, rispetto e discriminazione. Lo ricordiamo oggi iniziando a riascoltare tre delle sue canzoni più belle. Dove ci porterà il viaggio è un favoloso rischio che vogliamo correre: “Don’t worry about a thing, because every little thing is gonna be alright”.

Jammin’

Mentre Bob Marley canta questa canzone sul palco del One Love Peace Concert il 22 aprile 1978, a Kingston, accade qualcosa di storico. I due leader dei principali partiti politici giamaicani del momento, Michael Manley del People’s Nation Party ed Edward Seaga del Jamaican Labour Party, si stringono la mano. Al tempo, la rivalità politica tra i due partiti aveva acceso una vera e propria guerra politica a cui Marley cerca di fornire la sua personale soluzione con la musica. E qualcosa, in effetti, grazie a lui accade.

One love

Questa canzone scritta nel 1965 da un giovanissimo Bob Marley rincuora e atterisce al tempo stesso chi la ascolta. La prima versione, decisamente più ska che reggae, venne inserita nella compilation del 1966 “The Wailing Wailers”, ma non fu un successo. La seconda versione, quella a noi più familiare, venne invece pubblicata nel 1977 ed inserita nell’album postumo, del 1984, “Exodus”. Diventata un successo universale, è un messaggio di amore e pace contenente interrogativi malinconici e profetici, in contrasto con l’allegra sonorità che li accompagna.

Redemption song

Contenuta nell’album “Uprising”, “Redemption song” è il pezzo a cui Bob Marley ha lavorato per quasi un anno dopo aver scoperto, nel 1977, la malattia: un melanoma diagnosticato quando era già in stato avanzato. Come può accadere soltanto quando un essere umano viene messo davanti alla sua finitezza, alla sua non eternità, Bob Marley si trova a fare i conti con la consapevolezza del tempo che passa e si arresta, con le mutazioni fisiche dovute al decorso della malattia e con la mortalità.

Dalla sua personale elaborazione del dolore nasce una terapia personalissima e profonda come un abisso. Egli trova rifugio in quella madre immensa che è la musica e ci regala, sul finire del suo passsaggio terreno, uno dei più potenti inni di protesta e speranza mai scritti. Egli è rassegnato alla fine, a ciò che lo aspetta, ma ci chiede di cantare insieme quello che ancora gli resta: le sue canzoni di libertà e di redenzione. Niente atmosfere giamaicane, un suono universale: la sua inconfondibile voce e le corde di una chitarra.

Won’t you help to sing
These songs of freedom?
‘Cause all I ever have
Redemption songs

Immagine di copertina – Photo Credits © Lynn Goldsmith

Giorgia Lanciotti

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