In ufologia l’incontro ravvicinato del quarto tipo è quello che prevede i primi tre e da cui ne consegue un ulteriore, ben più terrificante: il rapimento. Nome, Alaska: la psicologa Abigail Tyler (Milla Jovovich) non ha ancora fatto in tempo a piangere il marito, morto in circostanze non ancora chiarite, che una maledizione sembra essersi scatenata su quella cittadina ai confini del mondo.
Sono sempre maggiori i casi di pazienti che, lamentandosi di inquietanti visioni notturne, cercano aiuto e guida in lei. Con il ricorso all’ipnosi regressiva, la dottoressa cerca di portare a galla qualcosa che con tutte le forze sembra voler restare celato. Ma qualcosa affiora.
“Il quarto tipo”: abductions su Super 8
Qualcosa che porta a gesti estremi e definitivi i pazienti. Qualcosa che sembra provenire dal cielo per sottoporli a esperimenti indicibili. All’alba del 2009 il mockumentary, o found footage sembra essere il must per chiunque abbia intenzione di cimentarsi con un film di genere, non abbia particolari idee ma necessità di timbrare il cartellino. Magari svoltare. Il facile e furbetto successo di “Paranormal Activity” di un anno prima è un’esca troppo ghiotta per non provarci. Olatunde Asumsamni arriva dal terrificante flop dell’inguardabile horror “The Cavern” (2005). Prima di dare il via ad un’onesta carriera di regista per serie tv, sembra l’uomo giusto al momento giusto per misurarsi con il sottogenere più cool del momento. Gli va quantomeno riconosciuta un certo qual tentativo di declinazione altra del found footage. Il tema fantascientifico, innanzitutto, in vece del già abusatissimo horror.
“Il quarto tipo” è poi un tentativo di evoluzione formale del mockumentary che spariglia ulteriormente le carte e cerca di stringere un più saldo patto di sospensione dell’incredulità con lo spettatore. Un docu-drama fittizio costruito su un mockumentary, in sostanza. E’ la stessa protagonista Milla Jovovich nei panni di se stessa a dichiararlo nel breve filmato in apertura di pellicola. Quella in cui la vedremo protagonista è la drammatizzazione di eventi davvero accaduti nell’Alaska dei primi 2000. Una storia che va raccontata perché non venga dimenticata né ignorata. Gli stessi eventi che una spezzata, reale dottoressa Tyler ripercorre in studio con il conduttore di un programma dedicato. Una drammatizzazione cinematografica del tutto convenzionale che, nel corso della pellicola, si accompagna spesso e volentieri ai filmati dell’epoca. Le videoregistrazioni delle seduto ipnotiche della vera dottoressa Tyler, filmati e audio degli archivi della polizia, registrazioni private.
Il fumo e l’arrosto
Un’alternanza su cui il nostro cerca di costruire la sostanziale efficacia della propria proposta, spaccando lo schermo con split screens ripetuti che mandano contemporaneamente in onda la ricostruzione televisiva e i filmati originali, in un gioco di rimpalli un po’ nevrotico, poco cinematografico ma di discreto effetto, almeno per un po’. Il problema, come nella stragrande maggioranza di questo tipo di prodotti, sta nella sua sostanza. Di respiro fantascientifico c’è giusto il presupposto, perché a conti fatti i momenti più concitati non distano granchè da quelli di una qualsiasi analogo film horror, fatti di immagini sgranate, movimenti convulsi di camera, pesudo-possessioni.
Gli alieni sono tornati e sono tornati cattivi, spietati e invisibili, ma è uno spunto a cui non si dà davvero seguito. La costruzione della narrazione è in più punti pretestuosa e debole, costretta in mancanza d’altro a buttare nel pentolone linguaggi sumerici, abductions e simbolismi un tanto al chilo. Ne conseguono protagonisti monodimensionali e grezzi, cui la risaputa monoespressività della Jovovich non fa alcun favore. Onore ad Asumsamni per il tentativo, ma di certo la direzione degli episodi di Bates Motel, Gotham o di Short Treks hanno dato più soddisfazione ad entrambi i lati del palco.
Andrea Avvenengo
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