“Basta ‘a salute e un par de scarpe nove, Poi girà tutto er monno, E m’a accompagno da me..”. Il ritornello della sua serenata, lo racconta più di un libro di memorie. ‘È robba der paese suo, che si può cantare pure senza voce‘. Rivendica così le sue origini, come uno stemma nobiliare: “Sono ciociaro, sono nato a Castro dei Volsci in provincia di Frosinone“. La purezza della lingua italiana la scandiva bene, ma sempre dopo l’intonazione di casa sua, orgoglio del frusinate. Nino Manfredi, la vita meno amara ce l’ha regalata lui.
Iniziò con una chitarra: quell’amica sotto braccio che teneva un po’ per compagnia, un po’ per scacciare la paura in sanatorio in cui si trovò nel 1937, dai diciassette ai diciannove anni, malato di tubercolosi. E dopo 30 anni, scrive i versi di “Tanto pe’ canta‘ “, nata in quel contesto. Insieme a “Roma nun fa’ la stupida stasera” di Rugantino, “Me pizzica… me mozzica” divenuta inno della Ternana Calcio, “Storia di Pinocchio”, fanno di Nino un cantante ‘de core’. Lui era la voce che faceva ridere alla radio. Per chi, ai tempi, aveva per svago, solo quei suoni che grattavano. Era il ‘Sor Tacito‘ che allietava le ore, ed era l’inizio di tutte le macchiette e caricature a venire. Era Nino, la laurea in Giurisprudenza in tasca, il doppiatore di Marcello Mastroianni in “Parigi è sempre Parigi”, “Le ragazze di piazza di Spagna”, e la voce di Franco Fabrizi nel film di Federico Fellini “I Vitelloni”.
La chitarra e il barista di Ceccano
È la voce delle viuzze, dei selci, dei suoi bassi e delle osterie. Nino Manfredi, Saturnino nostro, è il sentimento e il folclore della Roma popolare. Come un personaggio di Trilussa, o del Belli, ma autentico, reale: da cent’anni il ‘friccico’ di questa città. Il primo Rugantino della Storia. Fu proprio lui, il 15 dicembre del 1962, a portare sul palco nella commedia musicale di Garinei e Giovannini, le gesta della maschera romana. Comincia in punta di piedi, accontentandosi di piccoli ruoli a teatro, per pagare la pigione e addentare un panino, finché non ci ha fatto perdere una puntata di “Canzonissima“: quando il barista di Ceccano, Bastiano, imperversava con il suo ‘fusse ca fusse la vorta bbona‘. Dalla Sabina alle Alpi, riecheggiava l’intercalare più famoso e augurale della storia della televisione.
Quando lavorò con Alberto Sordi, considerato il suo alter ego, in “Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l’amico misteriosamente scomparso in Africa?”, pare litigassero. Per un’intervista nella quale Manfredi disse “Sordi è un personaggio, io sono un attore, perché faccio tanti personaggi”. Tanto bastò a non farli riappacificare.
Dal caffè al Re da’ mezza
“Conta prima la mimica, poi la parola, e questo non lo insegna più nessuno“. Era il suo segreto. Girava il cucchiaio nella tazzina, con la mimica leggera lo appoggiava sul piattino, e beveva l’amaro e nero caffè. Pareva lo gustasse, ma in mano non aveva nulla. Manfredi è stato il primo grande attore italiano a partecipare ai caroselli pubblicitari, i primi spot, e ad attuare nei suoi film, il cosiddetto ‘product placement‘: una forma di pubblicità in cui i prodotti vengono posizionati in modo apparentemente naturale nelle scene. Era l’uomo della Lavazza con Nerina Montagnani, con la nota frase “Più lo mandi giù e più ti tira su! Il caffè è un piacere, se non è buono che piacere è?”. Sempre in televisione, ma Nino bussava prima di entrare. Sulla scena non faceva mai il padrone. Aveva il garbo, con quell’inchino che è una piegatura naturale del suo corpo. Non sarà applaudito per la spavalderia, ma perché te la ‘racconta’ senza recite, piano, con umiltà, remissivo come l’Accademia d’Arte Drammatica aveva insegnato.
Era Piede Amaro nell’audace colpo de “I soliti ignoti“: “Datemi chiacchera sennò m’addormo, parlate, cantate..“. O Antonio di “C’eravamo tanto amati“, che a cena innalza i rigatoni trafitti da una forchetta, e annuncia: “Re da’ mezza, mesa’ che manco te pagamo!“. Quando il Carbonaro chiede “Parola d’ordine?”, Manfredi il ciabattino Cornacchia, risponde “A’ ‘mbecilli!” ne “L’Anno del Signore” di Luigi Magni. Nella sua finezza romana che ha fatto scuola, diceva: “E questa chi l’ha detta? Cicerone, Garibardi, er Sor Capanna?”, diretto da Ettore Scola, sempre nel capolavoro “C’eravamo tanto amati”. E poi ancora Nino Manfredi fu Geppetto, Pasquino, Ponzio Pilato. Come un americano di Roma, ha portato la Ciociaria a due passi da Hollywood.
Tanto per cantare tanto per sognare
Ma Nino, considerava il posto più bello della capitale il giardino degli aranci. Dove andava a vedere con il padre “quelli che mangiavano il gelato”. Tornando a piedi perché il tram costava. “La vera Roma è quella dalla quale puoi vedere il Colosseo, o il Circo Massimo“. Questa, l’eredità lasciatagli dal padre. Prezioso e unico lascito, sotto forma di suggerimento. Così acquistò una villa all’Aventino, da cui si godeva Roma. Lo stesso colle prescelto dagli antichi romani, e da lui sempre sognato. Dove abitava in una casa importante, che univa al tono raffinato un sapore ruspante. Come il suo proprietario. Che non esita a dire che l’acquistò con un prestito di Dino De Laurentis. A contatto con la natura, con un pezzetto d’orto che orgogliosamente lo riporta alle sue radici ciociare. ‘Un sogno a prima sera’, quella casa per lui. Mentre per la sua Roma, Nino sarà come quella preghiera cantata a mezze parole nella sua canzone, “Non te dico niente, ma c’ho bisogno di te“.
Federica De Candia per Metropolitan magazine