Il delitto di via Carlo Poma, avvenuto a Roma nel 1990, è uno di quei fatti ancora irrisolti.
Qui avvenne l’omicidio di Simonetta Cesaroni, nel pomeriggio di martedì 7 agosto 1990, in un appartamento al terzo piano. Il suo assassino non è mai stato trovato. Il criminologo Lavorino, che è convinto di conoscere il nome dell’assassino, sul caso ha scritto diversi libri, l’ultimo è Via Poma – Inganno strutturale tre.
Il delitto di Via Carlo Poma che fa ancora discutere
Dopo oltre 30 anni ancora non ha un nome l’assassino di Simonetta Cesaroni, ma Lavorino fa nuove ipotesi: «L’assassino di via Poma era mancino, aveva il gruppo sanguigno A e conosceva bene il condominio dove è avvenuto il delitto». Queste le sue dichiarazioni. Il criminologo Carmelo Lavorino, studia il caso da trentadue anni. Ha analizzato la scena del crimine e le testimonianze dei colleghi di lavoro e delle persone vicine a Simonetta Cesaroni, la ragazza uccisa proprio negli uffici degli Ostelli della gioventù, dove lavorava due pomeriggi a settimana come contabile.
«L’assassino è un mancino con il sangue del gruppo A»
Lavorino è convinto che ad uccidere Simonetta non sia stato il presidente degli Ostelli, come riporta ad esempio Vanity Fair, come invece molti ancora sostengono. «Gli elementi non portano al presidente degli Ostelli. Il primo è che noi sappiamo al cento per cento che il sangue dell’assassino è di gruppo A DQalfa 4/4. Ce lo dicono le macchie trovate sul telefono e quella trovata sul lato interno della porta dell’ufficio dove la ragazza è stata uccisa. Simonetta aveva gruppo sanguigno 0». Questo il commento di Lavorino. Il criminologo fa anche sapere che le ferite inferte alla vittima sono avvenute per mano di una mano sinistra, l’assassino era dunque mancino. E così continua. «Altro elemento molto forte è che l’arma del delitto è un tagliacarte. A questa conclusione è giunto anche il medico legale che esaminò il corpo. A mio parere si tratta del tagliacarte che stava nella stanza di una dipendente dell’Aiag, la quale la mattina del 7 agosto non riusciva a trovarlo. Infatti, usò quello di una collega. Alle 15 la donna andò via, senza aver mai trovato il tagliacarte. Però, quella stessa notte, quando la polizia arrivò sul posto, il tagliacarte si trovava sulla sua scrivania. Era leggermente piegato e lavato, senza traccia alcuna. Questo significa che l’assassino sapeva a chi apparteneva il tagliacarte, ma non che quella stessa mattina la proprietaria lo aveva cercato. Quindi, si tratta un soggetto “territoriale”, che ha riposto il tagliacarte pulito laddove, in base alle sue conoscenze, avrebbe dovuto essere».
L’assassino aveva un complice
Quindi, l’assassino è una persona che frequentava quell’ufficio. Ma c’è di più: secondo Lavorino il killer ha avuto un complice, qualcuno che lo ha aiutato a ripulire il locale e a cancellare le tracce. L’omicida avrebbe telefonato a qualcuno per farsi aiutare.
Ma anche altre certezze sul delitto di Via Carlo Poma vengono contestate da Lavorino.
Secondo lui, l’omicidio non è avvenuto dopo le 17.45. «Questo perché una collega ha riferito di avere parlato con lei a quell’ora. Però, l’esame del contenuto gastrico nel suo stomaco sommato al fatto che di solito la ragazza faceva merenda alle 17, e invece quel giorno non mangiò la pizzetta che si era portata da casa, fanno ritenere, e non solo a me, che l’omicidio sia avvenuto fra le 16.15 e le 16.45, quindi un’ora prima di quello che si pensa. C’è da dire anche che la stessa collega che sostiene di avere parlato con Simonetta al telefono, durante il processo iniziò la deposizione sulla telefonata spiegando che era avvenuta alle 16.15. Poi si corresse». Spostare in avanti l’orario delle telefonate avrebbe permesso alla collega, e ad altre due persone, di proteggersi e tenersi lontano dalla lista dei sospettati. Lavorino infatti conferma che, al momento della notizia, tutti si tennero a distanza, ammettendo di non conoscere Simonetta e dichiarando il falso.
Beatrice D’uffizi
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