Il petrolio è un costo pesante, ma i prezzi salgono già da 22 mesi anche per gli errori di valutazione della Fed, non sembra quindi essere tutta colpa di Putin.
Questo incremento inflazionale sta portando l’America indietro di 41 anni
Il “Putin’s Price Hike”, espressione di recente coniata della Casa Bianca, si potrebbe tradurre un po’ grossolanamente con un è tutta colpa del presidente russo. Sicuramente è colpa dello Zar se l’inflazione si è elevata a Marzo all’8.4% annuo rispetto al precedente 7.9%, un incremento che sta riportando l’America indietro di 41 anni. Bisogna notare però che dal momento in cui iniziavano a soffiare i venti della reaganomics e il capo della Fed, Paul Volcker, aveva già sguainato la durlindana dei tassi per staccare la testa al carovita.
Rispetto a prima, pure oggi i prezzi sono in fase ascensionale e il piede è pigiato sul pedale dagli armamenti anche per sostenere l’economia. L’avvicinamento al 1981 termina qui, perché con politiche ultra-espansive, Joe Biden e la Federal Reserve hanno poi contribuito ad alimentare un fenomeno che per mesi hanno ostinatamente continuato a considerare temporaneo. In questo momento, l’incremento del mese scordo dell’indice Pci è senz’altro attribuibile ai prezzi dell’energia (+11% su base mensile, +32% annuo) e a quelli della benzina (+18.3% nel mese), spinti poi dalla guerra in Ucraina e dalla pressione che sta esercitando sull’offerta.
Tuttavia, non va dimenticato che è da 22 mesi consecutivi che l’inflazione non si prende una pausa. Possiamo certamente dire che il Cremlino ha le sue colpe, ma Biden sembra aver trovato in Putin il perfetto capo espiatorio. Fino a un paio di mesi fa, a ogni sosta per il rifornimento, file di automobilisti innervositi lanciavano le maledizioni verso la Casa Bianca, infatti adesso si ha un altro responsabile.
Questo change di responsabilità però non basterà per quietare gli americani. Non almeno finche quel 62%, secondo la Nbc News, ritiene gli stipendi incapaci di tenere il passo con la galoppata dei prezzi. In un anno, l’aumento delle buste paga è stato in effetti del 5,6% e il mese scorso si è registrato un calo dello 0,8%. Le possibili rivendicazioni salariali sono la miccia d’innesco per altra inflazione e rischiano di far saltare le aspettative di almeno sei banche di Wall Street, secondo cui il picco dei prezzi al consumo è stato raggiunto proprio in marzo. Il sondaggio di Bloomberg colloca il carovita al 7,6% nel secondo trimestre e al 5,7% entro la fine dell’anno. Stime forse ottimistiche che si nutrono del lento incedere dell’inflazione core, quindi quella che esclude cibo ed energia, salita mensilmente di appena lo 0,3% e del 6,5% su base annua, grazie alla frenata dei prezzi delle auto.
Riassumendo quindi, il problema centrale è che il deprezzamento di un bene durevole non compensa i rincari del carrello della spesa (+14% burro e farina; +13% carne, pesce e latte; + 7% il pane, ecc.) con cui le famiglie americane devono fare i conti ogni giorno.
13 Aprile
Valeria Muratori