Lo stigma dell’HIV, inteso come marchio, comprende tutta una serie di connotazioni negative attribuite a determinate categorie di individui, che, molto spesso, subiscono discriminazioni e isolamento sociale. Questi atteggiamenti, nella maggior parte dei casi, derivano da idee scorrette riguardanti i meccanismi di trasmissione della malattia. Le modalità attraverso cui è possibile contrarre l’infezione sono essenzialmente tre: ematica, ovvero a causa di trasfusioni di sangue infetto, o per via dell’uso di siringhe anch’esse infette; sessuale, tramite rapporti non protetti; materno-fetale, durante la gravidanza, il parto o più difficilmente con l’allattamento al seno.
Lo stigma dell’HIV: fuorvianti consuetudini di pensiero
Nell’immaginario collettivo la persona affetta da HIV è qualcuno che conduce uno stile di vita disordinato, e che soprattutto mette in pratica comportamenti sessuali promiscui. Il prototipo di malati è quello di omosessuali tossicodipendenti, visti come untori e, come tali, subiscono il peso dei pregiudizi sociali e morali. E’ a loro stessi che viene ricondotta la colpa dell’essersi ammalati, come se si trattasse di una condizione voluta e cercata. Questo clima particolarmente ostile genera ansia, depressione e vergogna nei soggetti coinvolti, rendendo la morte sociale preludio della morte fisica. Tuttavia, nonostante l’avvenuto contagio, è possibile vivere anche per anni senza manifestare alcun sintomo, fino all’insorgenza di patologie tipicamente collegabili alla malattia.
Una corretta e sistematica informazione relativa ai meccanismi di contagio, renderebbe di dominio pubblico ciò che ancora oggi è scarsamente noto, ovvero una varietà di situazioni individuali che differiscono l’una dall’altra. In questo, come talvolta accade, è il mondo del cinema a fornire una versione della storia che, per mera consuetudine radicata affondo, non ci si sforza neanche di prendere in considerazione, ignorando che prima del malato esiste la persona.
L’HIV nel mondo cinematografico
“Philadelphia”, film del 1993 con protagonista Tom Hanks, fu la prima produzione hollywoodiana a trattare il tema e al contempo dramma dell’HIV, che in quegli anni negli Stati Uniti toccò il picco della diffusione. Tratto da una storia realmente accaduta, la pellicola mostra senza alcun filtro il timore, il disgusto e il rifiuto che l’uomo medio nutre istintivamente, e in genere senza possibilità di appello, nei confronti di coloro che sono sieropositivi.
In tempi più recenti, nel 2019, è uscito nelle sale “Vicino all’orizzonte”, film tratto dall’omonimo romanzo che narra la struggente storia autobiografica dell’autrice. Quest’ultima, in gioventù, s’innamorò di un ragazzo che, a causa di una violenza sessuale perpetuata da sua padre contrasse il virus dell’HIV. Entrambe le pellicole sono ambientate negli anni novanta, periodo in cui la ricerca e i trattamenti non avevano ancora raggiunto livelli tali da assicurare una sopravvivenza certa e dignitosa delle persone colpite, motivo per cui non c’è alcun lieto fine per i protagonisti reali e cinematografici delle storie narrate.
Terapie e prevenzione
Oggi le terapie hanno compiuto passi enormi rispetto al passato, e nonostante il sostenuto tasso di decessi l’infezione da HIV ha smesso di essere considerata una malattia con solo esito mortale. Si registrano circa 2 milioni di casi di contagio l’anno, con una maggiore incidenza tra i giovani nella fascia d’età che va dai 25 ai 29 anni, con trasmissione prettamente per via sessuale. Le strategie di prevenzione sono gli strumenti che maggiormente consentono, su larga scala, di ridurre il numero di contagi e abbattere il muro dei pregiudizi.
Giulia Ciriaci