“Pane, lavoro e libertà”. Uno slogan che ricorda pagine di scioperi e lotte nel nostro Paese, quasi anacronistico. C’è chi lo grida ancora oggi, in un angolo di mondo che sveglia quello che rimane quando gli ricorda di dover ancora ottenere diritti fondamentali. A comporre il coro nella giornata del 29 maggio, a Kabul, sono state voci di donna. Motivo centrale della protesta: quell’istruzione femminile che appare tanto scomoda per il regime dei talebani.

Donne a Kabul, senza voce

Le donne di Kabul sono tornate a farsi sentire, con la forza e la determinazione di chi si è visto sottrarre i propri diritti da davanti agli occhi. Di chi sa che, se davvero sono tali, devono essere avuti indietro. Non chiesti, non domandati: ottenuti. Di chi sa che la realtà dei fatti è diversa nella pratica. Hanno di nuovo sfidato il regime talebano e tutto quello che ne consegue nella protesta di domenica 29 maggio a Kabul, manifestando contro le restrizioni che interessano le donne, la chiusura delle scuole e la disoccupazione.

Il quotidiano “Hasht e Sabh“, con la più alta tiratura nel paese, riporta della partecipazione di circa cinquanta donne la cui marcia è stata violentemente fermata dai talebani in abiti civili, che hanno sequestrato i cellulari delle partecipanti in maniera che non potessero riprendere o diffondere video della protesta. Le donne sono state ridotte al silenzio in pochi minuti, disperse e costrette a ritornare a casa. Una volta ancora dunque una Kabul senza più voce accoglie il brutale gioco dei talebani coi diritti delle cittadine afghane.

Senza spazi né corpo

Essere donna in Afghanistan sotto il regime talebano vuol dire convivere con una serie di “no” ripetuti e costanti come una filastrocca dal sapore amaro dei nodi alla gola. Vietato viaggiare o anche solo spostarsi su brevi tratte in assenza di un uomo. Vietato entrare in parchi e giardini della capitale nei giorni riservati agli uomini. A coprire del tutto un’identità già cancellata, poi, l’obbligo di indossare il burqa nei luoghi pubblici. In quanto “civile e rispettoso”.

C’è una perversa e orribile logica. Un corpo che non esiste non occupa spazio né può pretendere di farlo. Le donne afghane non hanno margine di movimento perché ormai, a tutti gli effetti, non esistono. I talebani avevano promesso una maggiore morbidezza rispetto al regime del periodo compreso tra il 1996 e il 2001. Avevano promesso che avrebbero tutelato i diritti delle donne. Eppure sembra quasi che non ci sia più nessuno da proteggere. Perché non c’è più qualcosa da tutelare. Solo qualcosa da lottare per ottenere di nuovo.

Sara Rossi