I beniamini dello sport iraniano, presenti ai Mondiali di calcio in Qatar, prendono posizione circa le recenti proteste in corso nel loro paese e decidono di non cantare l’inno nazionale prima del faccia a faccia con l’Inghilterra: un gesto simbolico dell’Iran, ma dal peso politico enorme, che ha coinvolto non solo gli atleti in campo ma anche i tifosi dagli spalti, con reazioni differenti, fischi contro la squadra ma anche contro l’inno e striscioni contro il regime.
17 settembre 2022
Come si è arrivati al punto di rinnegare l’inno del proprio paese nel bel mezzo di una tutt’altro che banale manifestazione sportiva? È necessaria una breve operazione di backtracking, rinfrescando la memoria di sponsor e tifosi, che ci permette di risalire a circa tre mesi fa, quando a metà settembre fu uccisa Mahsa Amini, ventiduenne arrestata dalla polizia morale – un concetto quasi di orwelliana memoria, volendo ripercorrere i fasti della thinkpol del romanzo 1984 – per aver indossato il velo in maniera non corretta, in contrasto coi rigidi dettami della legge islamica. Il carcere è diventato morte per percosse, nonostante Teheran abbia invece ribadito che le cause del decesso siano imputabili ad una malattia, e il giorno dei funerali della giovane donna, il 17 settembre, è iniziata una protesta che ormai da settimane sta infiammando l’Iran e l’opinione internazionale.
La storia ci insegna che ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria e così, di pronta risposta all’insurrezione popolare, la repressione non si è fatta attendere, cumulando in pochi giorni dall’inizio delle proteste centinaia di vittime e migliaia di arresti, con una curva pericolosamente ascendente nel corso dei giorni.
La Nazionale
Gli eventi in Iran hanno coinvolto inevitabilmente personalità di rilievo della società, compresi gli atleti che avrebbero dovuto giocare in Qatar per i Mondiali 2022. A rompere il gelo e soprattutto la paura dello spogliatoio iraniano è stato Sardar Azmoun che sul suo profilo Instagram commenta il regolamento interno della Nazionale e le proteste nel paese: “Noi giocatori non possiamo esprimerci prima della fine di questo ritiro per via del regolamento interno della Nazionale, ma personalmente non sono più in grado di tollerare il silenzio. Possono anche escludermi dalla squadra: è un sacrificio che farei anche per una sola ciocca di capelli di una donna iraniana. Vergognatevi per la facilità con cui uccidete le persone. Lunga vita alle donne iraniane”. Dopo Azmoun, altri esponenti della squadra si sono esposti, fino ad un coinvolgimento totale del team: durante la partita contro il Senegal hanno indossato un giubbotto nero per coprire la maglia della Nazionale durante il canto dell’inno e sempre più presenti sono stati i messaggi di solidarietà, sostegno e appoggio alle manifestazioni anti-regime.
Questa slavina di eventi ha provocato l’inevitabile acuirsi degli eventi: a seguito di un’anonima richiesta fatta alla Fifa da parte di alcuni sportivi iraniani di estromettere l’Iran dai Mondiali, le forze dell’ordine hanno iniziato ad arrestare e incarcerare gli atleti di maggior spicco che si dimostravano favorevoli al pensiero dei movimenti di protesta, come il caso della Nazionale iraniana di beach soccer che, oltre a non aver cantato l’inno prima della partita contro il Brasile, ha espresso tutto il suo sostegno a seguito del gol di Saeed Piramoon, che avrebbe mimato il gesto del taglio di capelli, ormai simbolo della protesta. L’azione avrebbe subito un immediato deterrente: all’atterraggio a Teheran, la squadra sarebbe stata portata via da alcuni agenti.
Be quiet
Alla luce degli eventi, gli atleti della Nazionale, tesi come corde di violino, convivevano in uno spogliatoio spaccato, frammentato, tra timori per il Mondiale, ma anche per il proprio paese, per le ripercussioni della Fifa, per la deontologia sportiva. Nonostante la sconfitta contro l’Inghilterra, la squadra di Quieroz esce comunque vincitrice storica di una lotta per i diritti fondamentali, usando come arma il silenzio e una ciocca di capelli.
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