Cos’ha di diverso il femminicidio da un altro omicidio? Per rispondere a tale domanda c’è bisogno di ripercorrere la storia della violenza di genere che vede il concetto di femmicidio mutare in femminicidio.
L’omicidio ha un sesso. È vero anche gli uomini muoiono, soprattutto di omicidio, ma non vengono uccisi in quanto uomini. Il maschicidio esiste, ma non è equiparabile al femminicidio, quanto più al femmicidio. Questi due concetti (femmicidio e femminicidio) sono differenti: l’uno rappresenta l’origine, mentre l’altro la sua evoluzione concettuale.
Oggi si parla di femminicidio in maniera mainstream: esistono formule fatte o parole chiave che narrano la morte di una donna in quanto donna. Si parla spesso di gelosia, possesso o raptus, ma il gruppo originale di queste parole è quello più ampio dell’amore. Così “amore” e “morte” vengono avvicinati e il femminicidio ne è la conseguenza.
La storia della consapevolezza della violenza di genere racconta l’evoluzione del termine femmicidio verso quello di femminicidio.
Cosa significa femmicidio?
Femmicidio, dall’inglese femicide (composto da “feme” donna o moglie e il suffisso -cide), significa letteralmente omicidio di donna, ma indica nello specifico l’uccisione di una donna in quanto donna. La prima volta che si trova il termine “femmicidio” indicato in un testo è il 1801 e viene usata in un libro satirico per indicare la perdita del illibatezza di una donna in seguito alla condotta di un uomo, che per questo viene considerato omicida.
In questo utilizzo c’è molto dell’idea dell’uomo come cacciatore e donna come preda. Non è un caso se si tende a giustificare spesso il comportamento maschile, libertino o violento, paragonandolo a un istinto da cacciatore. La caccia però non ha come fine l’innamoramento, ma l’uccisione della preda. Michela Murgia in “L’ho uccisa perché l’amavo. Falso!” scrive che simili parole fanno accettare l’idea naturale delle cose, ovvero l’uomo insegue e la donna scappa. L’uomo caccia, la donna muore.
La narrazione dell’uomo cacciatore e della donna preda, alimentata dalla cultura di massa, può creare situazioni pericolose. Stalking, molestie, violenza e morte sono spesso commentati, e quindi giustificati, rivolgendosi al ruolo delle donne. “Se l’è andata a cercare” dicono delle prede, rendendole corresponsabili.
Femmicidio: la trasformazione della percezione di un fenomeno sistemico
È stato il femminismo a non accettare più il termine “femmicidio” come termine ombrello nel quale includere tutte le cause di uccisione di una donna. La trasformazione della percezione del fenomeno sistemico dell’uccisione di una donna da parte di un uomo in quanto donna aveva un intento educativo. Diana Russell, criminologa e femminista americana, era convinta di dover sottolineare l’origine sessista dell’estrema forma della violenza di genere, cioè l’omicidio.
Russell in un articolo del 1992 indica il femmicidio come l’esito di atteggiamenti o pratiche sociali misogine. È la prima a legare il femmicidio ha un problema politico:
Il femmicidio è un fenomeno che gli interessi patriarcali si affannano a negare: piuttosto che contribuire a far conoscere l’entità del fenomeno, e farlo diventare di interesse politico e sociale, le più potenti istituzioni della società patriarcale, il potere legislativo, giudiziario, la polizia, i media hanno ampliamente negato l’esistenza del femmicidio.
Cos’è il femminicidio? Le implicazioni del nuovo termine
L’antropologa Marcela Lagarde è forse la prima a utilizzare il termine “femminicidio” in America nel 2004, a partire dall’analisi della società messicana e latinoamericana. Femminicidio infatti deriva dallo spagnolo feminicidio. Lagarde descrive la violenza contro le donne come fatto sociale strutturale. Il neologismo “femminicidio” implica un sistema che non garantisce la vita delle donne e che non punisce e non ascolta preventivamente.
Con il nuovo termine femminicidio si indicano quindi tutti quei comportamenti violenti che non necessariamente causano la morte della donna, ma che tendono all’annientamento fisico o psicologico. Il termine femminicidio in sé è una denuncia alla responsabilità sociale e politica.
Qual è la differenza tra femmicidio e femminicidio?
Femmicidio, come detto in apertura, rappresenta l’opposto basato sul genere di maschicidio. L’atto dell’uccisione di una donna in quanto donna è quindi descrivibile come femmicidio, ma il sistema di oppressione che porta alla morte di una donna è un altro.
Il femminicidio racchiude in sé la definizione non solo criminale del gesto, ma anche sociale e politica. Rappresenta il percorso della violenza in un sistema che giustifica l’uomo e rende corresponsabile la donna per natura.
Le origini e gli usi di femminicidio in Italia
Il termine femminicidio era già in uso in Italia e risale almeno all’Ottocento. L’Accademia della Crusca ricorda la prima volta che viene utilizzato il termine in un commento di Augusto Franchetti a un testo di Luigi Capuana. “Chi non ha un qualche omicidio (che è per lo più un femminicidio) sulla coscienza, getti lui la prima pietra“, commenta Franchetti in riferimento all’idea di Capuana che la protagonista dell’opera avesse subito una violenza essendo in parte responsabile.
La definizione femminista di femminicidio viene però descritta la prima volta nel 1977 dalla giornalista Maria Adele Teodori su La Stampa. Teodori scrisse in ragione del movimento femminista che collegava il ruolo della donna all’oppressione, definendo il femminicidio quotidiano come un sistema agevolato dalla violenza dell’istituzioni. Soltanto nel 2000 si inizia a utilizzare “femminicidio” all’interno della narrazione mediatica per raccontare l’uccisione di donne da parte gli uomini.
Perché non umanicidio? La critica superflua al termine
Nel breve percorso da femmicidio a femminicidio emerge la necessità di sottolineare la matrice dell’odio e dell’oppressione che è causa dell’uccisione di una donna. Quando si racconta un episodio di femminicidio sono in molti a proporre due diverse critiche. La prima fa riferimento al termine, cioè all’utilizzo di un termine specifico per indicare la morte delle donne per mano di uomini; il secondo è l’esistenza stessa del femminicidio in quanto tale.
In questo contesto ci interessa rispondere alla prima delle critiche, quella che vorrebbe utilizzare il termine “umanicidio” per indicare tutte le vittime di omicidio. Perché l’omicidio non ha sesso, dicono. La critica al termine di un omicidio specifico avviene però soltanto nei confronti del femminicidio, nessuno ha mai criticato l’utilizzo del termine “infanticidio” o “parricidio”. Esistono molti termini che specificano il tipo di omicidio, ma il termine femminicidio è fastidioso per alcuni, perché implica una responsabilità di genere.
Più che criticare un termine però bisognerebbe soffermarsi a criticare l’atto in sé. Per usare le parole di Matilde Paoli: “[…] ciò che dovrebbe essere condannato sono gli atti e non le parole che servono a denunciare”.
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Articolo di Giorgia Bonamoneta.