Sono lontani i tempi in cui l’Haute Couture indicava la complessa artigianalità che vi era dietro ad un solo capo: l’abito. Ora apre le porte del suo guardaroba alla versatilità. Valentino con il suo show d’Alta Moda allo Château di Chantilly mostra come la complessità della lavorazione è di per se simbolo dell’Haute Couture, e non è più solo l’abito l’unica forma conosciuta di questa, la quale ora muta in nome del dailywear. PierPaolo Piccioli reimmagina il profilo sontuoso dell’Alta Moda e svela una collezione che approfondisce il rapporto tra abito e quotidianità, proprio quando quest’ultima sembra essere un ospite discusso all’ultima Haute Couture Week.

Valentino Haute Couture 2023: l’inclusività del dailywear

Valentino Haute Couture - Photo Credits vogue.it

‘’La semplicità è una complessità risolta’’ dice PierPaolo Piccioli, direttore creativo della maison, che presenta l’ultima collezione Haute Couture nel giardino biancheggiante di Château di Chantilly. Un luogo classico, sinonimo di lusso e sontuosità, ma che fa da contrasto al messaggio di Valentino: rendere l’esclusività inclusiva, come? Facendo sfilare pantaloni ‘’denim’’ con camicie sovradimensionate. Un gioco di ruolo e di apparenze, quello di Piccioli, che non vuole esibire manufatti a favor di social, ma svelare la parte ‘’pratica’’ (per quanto possibile) dell’Alta Moda, seppur rispettando sempre una delle sue regole principali: l’unicità. Sono abiti che regalano un’idea di moda se non accessibile quanto meno comprensibile, ‘’che sappia dialogare con la quotidianità degli eventi’’, ed il titolo ‘’Un Château’’ preannuncia questo desidero di apertura. Non a caso l’indeterminativo ‘’un’’ è posto lì per indicare che quel luogo appartiene a tutti, all’immaginazione di chiunque e non solo alla storia:

‘’non ci sono re, né principesse, solo umani’’

Spiega il direttore creativo che si impegna da anni in battaglie d’inclusione ed integrazione sociale, perché, secondo lui, la moda è questo, ‘’un desiderio comune dalle mille forme’’. Un’inclusività, quella della sua Haute Couture, che offusca volontariamente il marchio di fabbrica dell’opulenza indosso a pochi eletti, ma che ancora si confronta con costi elevatissimi che portano i singoli abiti a raggiungere un valore a triplo zero, e considerando che, quella di Valentino, è un’Alta Moda che risponde di unicità, maestria ed artigianalità, l’investimento assume un peso diverso, perché è una collezione che si indossa e non rimane nascosta nel guardaroba, godibile proprio perché indossabile.

La collezione: un omaggio al tempo e la sua cura

Quella di Valentino è una collezione percettiva, che richiede una lettura visiva accurata, nella quale si nascondono piccoli ed innocenti inganni. Sono i look formati da pantaloni in denim, che tali non sono, perché realizzati in gazar di seta, ricamati con microscopiche perle di vetro di 80 gradazioni d’indaco, ampie camicie bianche, che sembrano prese dal guardaroba maschile, ormai condiviso con quello del womenswear, e rivestite di un’inedita femminilità, e top metallici senza maniche, ad accendere l’attenzione del pubblico che fino alla fine dello show assiste ad un nuovo capitolo della sperimentazione tessile fatta Haute Couture. Un’innovazione che si mostra anche nella riedizione di Levi’s prodotti nel 1966, con etichetta sbagliata (la E maiuscola), arabescati d’oro. ‘’Un trompe-l’oeil paradossale’’, come lo definisce PierPaolo Piccioli, che si impegna a valorizzare l’abito della quotidianità, apparentemente comune e senza complessità alcuna, ma che nasconde una manualità e una lavorazione mai viste prima, proprio come l’abito sottoveste in rosa, con taglio sbieco, realizzato con 12metri di tessuti e 140ore di lavoro. A queste so aggiungono le 290 richieste dal caftano in cady di seta, della canotta ricamata a mano con trama diamatata e della cappa a lavorazione 3D. L’abito diventa così custode del valore del tempo, vestendolo di quei minuti che ha dedicato alla creazione di un manufatto ‘’indossabile’’.

L’atelier come casa dell’Haute Couture

‘’Sento di appartenere ad un luogo che esiste ma che spesso si dimentica, perché quello che importa è solo il prodotto finale’’, è con queste parole che Piccioli pone all’attenzione di stampa e media l’importanza dell’atelier, e in qualche battuta di fine show, spiega la sua decisione di uscire per il saluto sempre accompagnato da sarti e artigiani ‘’grazie ai quali tutto questo è reso possibile’’. Il designer che più volte ha speso parole a riguardo, sostiene che l’atelier sia un luogo così fisico quanto ideale che si regge sulle mura della collaborazione creativa, e che la sua posizione di direttore creativo è puramente di guida nel processo di costruzione di una collezione. L’Alta Moda, d’altronde, nasce e cresce tra bustier e corpetti appuntati, carte e disegni appesi al muro, e fili di tessuto che prendono vita grazie alla manualità di chi quell’abito lo conosce come nessun altro, ‘’ed è in quella cura che risiede il suo valore, ma anche la storia della maison’’. Valentino non solo da anni pone l’attenzione sul tema dell’integrazione, ma, in prima persona si fa portatore nelle mura della sede di Roma di questo messaggio, proprio per questo dietro un’abito d’atelier vi è la manualità di tre generazioni diverse, che crescono imparando l’una dall’esperienza dell’altra, un’altro modo per dire che ogni abito è l’unione di tre storie: quella di chi lo progetta, quella di chi lo crea, quella di chi lo indossa.

Luca Cioffi

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