L’estetica di Caravaggio e l’utilizzo dei colori di Michelangelo Merisi, pittore nato nel 1571 nella città meneghina. La sua formazione attraversò la Penisola tutta. Da Milano a Roma dalla Sicilia a Napoli. Ben presto si affermò negli ambienti artistici come grande rivoluzionario dell’estetica tardo-rinascimentale. Ben lontano, infatti, dalla scuola di Raffaello Sanzio, il Caravaggio diede nuova vita al modo di fare arte gettando le basi per il gusto Barocco che si affermerà negli anni successivi, insieme al Manierismo. La tecnica innovativa del chiaroscuro che conferiva alle opere una forte percezione non solo tridimensionale ma di realismo permeo di un grandissimo spirito di drammaticità segnerà definitivamente la storia dell’arte. Dopo Caravaggio nulla sarà più lo stesso.
Caravaggio e i colori dell’oscurità
Prima dell’invenzione della tempera ad olio i pittori erano soliti creare per loro stessi i colori. Adoperando sostanze per lo più di origine animale, vegetale o anche minerario, davano vita alle loro tempere potendo, così, modulare secondo la loro sensibilità i colori da loro scelti. Nella scelta dei colori Caravaggio, pertanto, non era esente da questa pratica indispensabile ad ogni artista. Nelle pitture del maestro meneghino, infatti, sono state trovate tracce di zinco, iodio, magnesio. Si è ritrovata anche una sostanza ricavata dalla essiccatura delle lucciole che conferiva alle tele una maggiore luminosità alle sue opere.
Ma è il così detto mummia a destare lo stupore degli studiosi contemporanei. Per capire l’origine di questo materiale bisogna ripercorrere una parte di biografia del Merisi. L’artista, infatti, è in fuga verso Malta e la Sicilia, in seguito ad alcuni avvenimenti causati da una vita del pittore non propriamente pacifica e condotta con rettitudine.
In quei luoghi, specialmente in Sicilia, risiedevano i fossori, becchini ante litteram, i quali trattavano la conservazione dei cadaveri con una sostanza ricavata dalla combustione di carne animale miscelata con resine di origine diversa. Inoltre, costoro, avevano i loro laboratori in caverne e antri scuri scavati nel tufo ricavati dalle catacombe protocristiane. Appare indubbio come questi cunicoli di roccia lavica abbiano affascinato il Caravaggio tanto che, con molta probabilità, questi laboratori diventarono il uso atelier per quel periodo.
Da questo momento ha inizio la fase ultima dell’estetica caravaggesca. Insieme all’uso di lacche e terre d’ombra le tele saranno sempre di più avvolte dall’oscurità con i soggetti circondati dall’ombra opprimente dell’animo dell’artista, pittore irrequieto. Ma è proprio nel momento in cui il quadro è permeo di oscurità che la luce può rifulgere e invadere la tela. Anche la più piccola candela nella notte più oscura può illuminare il cammino più oscuro. Ed ecco che immagini di santi avvizziti e vergini profane ritrovano vita, più reali che mai, scevri da quella lucentezza diafana e irreale che imperava a quel tempo. La drammaticità scenografica è ben studiata e, come un sapiente scenografo, avvicina i suoi alti soggetti all’umano, rivendicando uno squisito e crudo realismo.
Caravaggio e Pasolini, l’oscuro realismo
Affinità intellettive indubbie per i due artisti maledetti giunti a Roma dalle terre del Nord come sconosciuti che rinnegano la prospettiva egemone del tempo in cui vivono: rigore armonico di storia vissuta, opaca di realismo poeticizzato senza alcun riguardo per i colori (ma soprattutto ombre) di quella che è la vita presa in ogni sua sfumatura. Fuggiaschi e in eterno esilio non per scelte ma per loro ineluttabile natura di rinnegati. Artisti sublimati nella loro espressione dell’immagine in cui si narrano strade e vicoli ciechi. C’è sì la santità, ma lontana e bramata senza alcuna soddisfazione. Uomini irrequieti che cercano la luce nelle ombre dei loro riflessi.
Paolo de Jorio
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