La giunta militare che ha preso il potere in Niger vuole giudicare il presidente deposto, Mohamed Bazoum, e altri componenti del suo governo con l’accusa di alto tradimento. “Il governo del Niger ha raccolto le prove necessarie per processare davanti alle autorità competenti il presidente deposto e i suoi complici locali e stranieri per alto tradimento e per aver minacciato la sicurezza interna ed esterna del Niger”, hanno comunicato i golpisti stando alle notizie riportate dal portale Le Sahel.

Bazoum ha 63 anni ed era stato eletto presidente del Niger in modo democratico nel 2021. A fine luglio è stato deposto in modo illegittimo da un’insurrezione della Guardia presidenziale, un’unità d’élite dell’esercito nigerino di cui Bazoum aveva cercato negli anni di ridurre potere e influenza. In seguito al colpo di stato Abdourahmane Tchiani, il capo della Guardia presidenziale, si è autoproclamato leader del paese e ha formato un nuovo governo. Il golpe è stato motivato con la necessità di porre rimedio a una serie di problemi di sicurezza, economici e di corruzione nel paese.

Con il presidente Mohamed Bazoum al momento agli arresti, a comandare a Niamey è il generale Abdourahamane Tchiani: se il primo è assai gradito all’Occidente e soprattutto alla Francia, il secondo invece sembrerebbe guardare più alle potenze emergenti dei Brics e alla belligerante Russia. In particolare i militari sembrerebbero essere propensi a riprendere il possesso dei giacimenti di uranio e carbone, cosa che ha fatto scattare più di un campanello d’allarme a Parigi.

Ieri, stando a quanto riferito da un gruppo di religiosi islamici della Nigeria andati in missione a Niamey, i golpisti del Niger avevano aperto a “esplorare la via diplomatica” per risolvere la situazione di stallo con il il blocco regionale dell’Africa occidentale (Ecowas). I leader religiosi hanno avuto un colloquio con il primo ministro nominato dalla giunta golpista, Ali Mahaman Lamine Zeine.

Ciad, oltre il Niger 

Non è solo il Niger a minacciare la stabilità del Sahel. L’allarme lo lancia l’agenzia specialistica Fides, che in un lungo reportage spiega che la guerra ha già raggiunto, nell’indifferenza della comunità internazionale, il Sudan. Un imponente flusso di profughi generato dai combattimenti adesso si riversa verso il Ciad, cuore strategico del Sahel e porta d’accesso verso la Nigeria e il Camerun, mettendo a repentaglio la stabilità dell’intera regione.

“Anche se in Europa non se ne parla molto, dal 15 Aprile 2023, in Sudan, è in corso un drammatico scontro armato tra fazioni rivali, comandate da due generali che si contendono da anni il potere. Questa guerra fratricida sta provocando in tutto il Paese la fuga della popolazione verso i Paesi limitrofi, in particolare verso il Ciad. Attualmente, oltre 30.000 persone del Darfur sudanese hanno trovato rifugio nelle province confinanti del Ciad.

L’afflusso dei profughi continua ancora a un ritmo di circa 5.000 persone alla settimana, e si prevede che non si arresterà nei prossimi mesi, almeno fino a quando gli scontri non cesseranno definitivamente. Inoltre, le prospettive per il ritorno alla pace sono attualmente molto lontane e precarie”. Recitava così l’appello lanciato dal Vicariato di Mongo, in Ciad, a firma di don Fabio Mussi, coordinatore del progetto che la diocesi ha lanciato per andare in soccorso delle migliaia di profughi che affluivano dal Sudan travolto, all’epoca, da un mese di terribile conflitto.

Di mesi, dall’inizio della guerra, ne sono passati quattro e la situazione si è drammaticamente aggravata, spiega Fides. L’esodo della popolazione sta raggiungendo proporzioni bibliche.