Pablo Larraín ama due cose: il cinema e la storia. La storia nell’ordine dei suoi protagonisti, nelle loro sfaccettature e nei loro drammi. Lo ha sempre dimostrato nella sua filmografia: a partire da No fino a Spencer. I protagonisti storici che si corrodono di potere, senza venirne mai veramente saziati. E amore per il cinema, perché, nel caso particolare de Il Conde, Larraín si diverte a dirigere e ad omaggiare una tradizione cinematografica difficile da toccare: l’horror anni Trenta. El Conde, in concorso a Venezia Ottanta, uscito su Netflix il 15 settembre, non è un film esente da difetti. E non è una pellicola che, di certo, si può dire abbia unito la critica alla mostra. Ma è normale quando si tenta un’operazione (geniale) del genere. È un film che respira cinema e divertimento, che mostra come Larraín sappia divertirsi dietro la macchina da presa e sappia raccontare le sfaccettature di un dittatore come Pinochet anche attraverso la satira, l’ironia e un pizzico di horror vampiresco. E che mostra come la poetica del regista cileno sia più viva che mai, con un’idea chiara anche se mascherata da allegorie.
El Conde: Vampiri, Pinochet e altri mostri
Augusto Pinochet non è mai morto. In un Cile alternativo, il dittatore è un vampiro nato sotto l’impero di Maria Antonietta nella Francia della rivoluzione. Da lì si sposterà in Cile, dove negli anni Novanta fingerà la sua morte per ritirarsi a vita privata. Dopo 250 anni, Pinochet vuole rinunciare alla vita eterna perché non riesce a reggere il peso di essere visto come un ladro. In tutto questo, i suoi figli cercano disperatamente di accaparrarsi l’eredità del generale ormai in procinto di andarsene. A gestire tutto questo, arriverà Carmencita, una suora sotto copertura che si fingerà una contabile ingaggiata per stimare il valore dell’eredità. È interpretata da una splendida Paula Luchsinger, che anche grazie ai primi piani e mezzi busti di Larraín, riesce a dare al personaggio enorme espressività. È contemporaneamente piena di rabbia, di sufficienza, di commozione, indignazione e condiscendenza verso la famiglia Pinochet. E questa forza espressiva arriva anche dallo splendido bianco e nero del fotografo Edward Lachman che dona al film un’aura mistica e citazionista ad un cinema horror classico. El Conde è quindi uno spaccato ironico e satirico su di una figura, nel male, fondamentale per la storia cilena. E l’allegoria vampiresca è diretta nel delineare quella che è la figura di Pinochet, in modo dissacrante e tagliente. Le interviste condotte da Carmen ai figli sono un susseguirsi di azioni realmente commesse dal dittatore, raccontate con un tono quasi fiero dalla famiglia come in un flusso di scrittura che vuole umiliare in tutto e per tutto il generale. E Larrain si diverte proprio. Lo fa con un film di cui, evidentemente, sentiva il bisogno. Un film che riesce a nascere da un’idea tanto strana, quanto, se vogliamo, geniale.
Un film giustamente politico
Ovviamente, El Conde non è esente da difetti. Se la prima parte di film domina con il suo ottimo montaggio, gli ottimi spunti e soprattutto la grande scrittura, la seconda parte fatica di più. Arranca e si inerpica in situazioni che si attorcigliano tra loro, in un vortice di elementi che perdono quell’aura satirica per virare sul puro racconto. E quindi perdendo verve. Il terzo atto è forse troppo allungato, portando il film ad una durata leggermente eccessiva. Si poteva asciugare qua e là per renderlo più longilineo e scorrevole. Anche se, c’è da dare credito a Larraín e Guillermo Calderon per la trovata, anch’essa geniale, che fa da turning e starting point del terzo atto. Non è solo divertente e in linea con il mondo narrativo del film, ma ha un senso allegorico politico molto forte. Perché El Conde è un film politico in tutto, per tutto e in ogni suo dialogo. Divertente, scanzonato, a tratti horror e a tratti commedia e che fa respirare tutto il divertimento e tutta la necessità di Larrain di scrivere un film d’autore come questo.
Alessandro Libianchi
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