La Palestina sanguina nel silenzio internazionale e Israele ha quasi del tutto raso al suolo Rafah, che ora è una zona semi deserta, macabro ritratto di questo genocidio.
Quando, poco più di un mese fa, l’esercito israeliano ha iniziato le operazioni militari a Rafah, c’erano circa un milione e mezzo di sfollati palestinesi nella parte meridionale della Striscia di Gaza. A quel tempo, era considerata l’unica area parzialmente sicura dopo mesi di bombardamenti e offensive terrestri in altre parti della Striscia. Ora a Rafah restano poco più di 100mila persone: l’offensiva israeliana ha costretto oltre un milione di abitanti a trasferirsi nuovamente verso nord, nelle zone abbandonate mesi fa a causa delle operazioni militari israeliane.
Rafah deserta, senza aiuti umanitari, soccombe nell’indifferenza internazionale?
Questo nuovo spostamento, principalmente verso le aree costiere di Khan Yunis e Deir al Balah, ha peggiorato ulteriormente le condizioni di vita, creando un’ennesima crisi umanitaria, forse ancora più grave delle precedenti. Come a Rafah, gli accampamenti sono sovraffollati e privi di adeguate condizioni igieniche, con scarsità di cibo, acqua e carburante per i generatori. Inoltre, gli aiuti umanitari faticano a raggiungere la popolazione in queste condizioni.
Gli sfollati palestinesi a Rafah hanno iniziato ad abbandonare la zona a inizio maggio, quando un’operazione dell’esercito israeliano è diventata imminente. La fuga è diventata più caotica quando i bombardamenti si sono intensificati, specialmente dopo l’incendio innescato dalle bombe nell’accampamento di Tal al Sultan, che ha causato 45 morti, molti dei quali bambini. Secondo le Nazioni Unite, attualmente nella provincia di Rafah sono rimaste poco più di 100.000 persone rispetto alle 275.000 prima dell’inizio della guerra. Lo svuotamento degli accampamenti è visibile anche dalle foto satellitari.
UNRWA preoccupata per le conseguenze psicologiche: “senso di disperazione” dei Palestinesi
Oltre un milione di persone si è diretto verso nord, ritornando a Khan Yunis, dove circa il 70% degli edifici è distrutto o danneggiato, o accampandosi nella cosiddetta area umanitaria di al Mawasi (vicino alla città, lungo la costa) e più a nord, nelle zone costiere di Deir al Balah.
A ciò si aggiunge un deterioramento delle condizioni psicologiche, con un crescente «senso di disperazione». Sono le parole di Louise Wateridge, portavoce dell’UNRWA, l’agenzia delle Nazioni Unite che fornisce assistenza ai profughi palestinesi (fonte: il Post). Wateridge è stata a Rafah nelle ultime settimane dopo l’invasione di terra:
«La gente sta cominciando ad arrendersi, a volte rinuncia a spostarsi ancora. Prima dell’attacco di Rafah, tra gli sfollati rimaneva una sorta di fiducia nel futuro: ora subentra la rassegnazione. Non c’è un posto sicuro dove stare, non c’è speranza. La paura e il panico sono comuni, perché la gente sa che gli aiuti non riescono a raggiungere altre parti della Striscia».
Louise Wateridge, portavoce dell’UNRWA
Accampamenti di fortuna:
Le spiagge sono diventate la sede di enormi accampamenti di tende, dove ogni metro quadrato è occupato da strutture di fortuna e densamente popolato. Le testimonianze dalla zona parlano di muri di sabbia costruiti per evitare che le onde raggiungano gli accampamenti e di file di tende («Praticamente non riesci a vedere il terreno», dice Wateridge). Non tutte le tende sono vere tende: a Gaza sono diventate un bene raro e le organizzazioni umanitarie non riescono a fornirne a sufficienza. Per creare ripari dal sole, si utilizza di tutto: plastica, sacchetti, teli dell’ONU, pezzi di camion inutilizzabili.
Gli accampamenti di Rafah erano altrettanto affollati e improvvisati, ma avevano il vantaggio di essere vicini agli ingressi dei camion con gli aiuti, prima attraverso il varco di Rafah stesso, poi da quello di Kerem Shalom. Le autobotti con l’acqua arrivavano ogni giorno con una certa puntualità: facendo lunghe code era possibile rifornirsi. Ora non è più così: l’arrivo delle autobotti nei nuovi accampamenti è più complesso, soggetto a viaggi più lunghi su strade dissestate e percorsi interrotti da operazioni militari e posti di blocco dell’esercito.
Si muore di fame e di sete:
La scarsità di acqua deriva anche dal rifornimento molto ridotto di carburante, necessario per far funzionare gli impianti di desalinizzazione di acqua marina. Il carburante disponibile viene usato per attivare i generatori necessari per le emergenze, per l’illuminazione e i macchinari negli ospedali, e per le comunicazioni.
La carenza di cibo dura da mesi, l’ONU stima che oltre un milione e centomila palestinesi siano colpiti dagli effetti della malnutrizione. Wateridge dice di aver rivisto palestinesi che aveva conosciuto prima della guerra dopo otto mesi:
«Si notano subito gli effetti di un’alimentazione carente: le persone sono non solo dimagrite, ma anche visibilmente invecchiate, con un colore della pelle diverso. Alcuni alimenti, come quelli con più vitamine, non si trovano mai».
Louise Wateridge, portavoce dell’UNRWA
Rafah è quasi deserta ma piena di spazzatura: i lati nascosti del Genocidio palestinese
Un altro grosso problema delle ultime settimane è l’accumulo di un’enorme quantità di spazzatura: le Nazioni Unite stimano che nella Striscia ci siano quasi 300.000 tonnellate di rifiuti da smaltire. Vicino alle montagne di rifiuti risulta difficile respirare, mentre si concentrano insetti e animali. Il tutto è peggiorato dalle alte temperature estive. Prima del 7 ottobre, i rifiuti venivano smaltiti in due discariche principali, Juhr Al Dik nel nord e Al Fukhari nel centro e sud: ora entrambe sono irraggiungibili. L’ONU ha organizzato discariche temporanee e fornito benzina per i mezzi di raccolta, ma gli spostamenti sono subordinati ad accordi con l’esercito israeliano, perché i camion devono superare vari checkpoint. L’accumulo di rifiuti peggiora le condizioni igieniche e può favorire la diffusione di malattie epidemiche.
Le nuove zone dove si sono raccolti gli sfollati non sono sicure: l’operazione israeliana di sabato a Nuseirat, che ha permesso di liberare quattro ostaggi, ha causato centinaia di morti secondo il ministero della Salute della Striscia di Gaza, controllato da Hamas. In generale, tutti gli operatori umanitari raccontano di un rumore costante di bombardamenti, che «fa tremare i muri» e trasmette insicurezza.
Disperazione negli ospedali: mancano medicinali, sangue, strutture
Le condizioni sono particolarmente gravi negli ospedali, che non riescono ad assistere tutti e spesso non possono accettare nuovi pazienti. Quelli rimasti operativi sono 17 su 36 (6 su 24 se si considerano solo i maggiori): fra questi, 3 nella zona nord della Striscia, 7 a Gaza, 3 a Deir al Balah, 4 a Khan Yunis, nessuno a Rafah. Mancano sangue per le trasfusioni, medicinali e spazi nelle strutture: operazioni complesse come amputazioni vengono effettuate in tende improvvisate nei cortili, sale parto allestite in scuole e asili, i pazienti con malattie croniche non hanno accesso da mesi alle cure.
Karin Huster, consulente medica a Gaza per Médecins Sans Frontières (MSF), ha descritto l’ospedale di Al Aqsa (Deir al Balah) come «una nave che affonda, che non so come sia ancora operativo». Ha detto che la gente che arriva all’ospedale «resta qui e muore qui», sdraiata per terra nei corridoi e nei cortili, mentre «l’odore di sangue nel pronto soccorso è diffuso e opprimente»
Prima che Rafah sia deserta, servono i fondi per terminare il genocidio:
Per l’UNRWA, oltre alle difficoltà operative, c’è una forte riduzione dei fondi: vari paesi, tra cui Stati Uniti e Regno Unito, hanno smesso di finanziarla. Dopo gli attacchi del 7 ottobre, Israele aveva accusato 12 dipendenti dell’agenzia delle Nazioni Unite di avere partecipato all’operazione, nonché l’organizzazione di connivenze con Hamas. Israele non ha fornito prove valide per le sue accuse, secondo le conclusioni di una commissione indipendente dell’ONU. La portavoce dell’UNRWA, Wateridge, sottolinea come l’interruzione dei finanziamenti abbia causato una legittimazione implicita degli attacchi all’agenzia, anche fisici a strutture e mezzi. Alcuni paesi europei avevano interrotto i finanziamenti all’UNRWA, ma li hanno ripresi di recente.
Tutte le agenzie umanitarie ribadiscono che l’emergenza umanitaria è «creata dall’uomo e può essere interrotta dall’uomo» e indicano come primo passo necessario un cessate il fuoco. Negli ultimi giorni il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha approvato una risoluzione.