Tiriamo le somme ad un anno dal 7 ottobre.

Il 7 ottobre 2023, Hamas ha lanciato un attacco massiccio contro Israele. Ciò ha scatenato una brutale offensiva contro la popolazione civile e una risposta devastante da parte dello Stato ebraico. A un anno di distanza, la regione è ancora segnata dagli effetti di questa escalation. Siamo davanti non solo uno ad scontro militare, ma all’ennesimo capitolo di un conflitto radicato in decenni di oppressione e ingiustizia. La reazione israeliana, caratterizzata da bombardamenti indiscriminati su Gaza e operazioni militari in Libano, ha sollevato gravi accuse di violazioni del diritto internazionale umanitario. Con migliaia di civili palestinesi morti, ci si interroga sulla vera natura delle intenzioni di Israele: difesa o espansione territoriale mascherata da guerra contro il terrorismo?

Situazione attuale ad un anno dal 7 ottobre, cosa succede tra Israele e Palestina?

Ad oggi, la crisi umanitaria è devastante e l’intensificazione militare è in corso. Dopo un anno dall’attacco di Hamas, Gaza ha subito perdite incommensurabili: oltre 41.000 palestinesi, la maggior parte donne e bambini, sono stati uccisi. Gli attacchi indiscriminati hanno colpito rifugi e infrastrutture civili, spingendo milioni alla fuga. Anche il Libano è stato colpito duramente, con circa 2.000 morti e oltre 1,2 milioni di sfollati.

Israele, che sostiene di mirare a obiettivi militari, è stato ampiamente criticato da organizzazioni umanitarie come l’ONU per violazioni del diritto internazionale. Le accuse di crimini di guerra aumentano, con l’uso sproporzionato della forza e la continua espansione degli insediamenti in Cisgiordania. A fronte dei 1.200 israeliani uccisi durante l’attacco iniziale, la reazione di Israele ha raggiunto proporzioni che molti osservatori ritengono genocidarie. Si rivela così una strategia di espansione e dominio regionale con tragiche conseguenze per la popolazione civile.

La recente manifestazione a Roma

La manifestazione del 5 ottobre 2024 a Roma, in sostegno del popolo palestinese, ha evidenziato un preoccupante clima di repressione da parte delle forze dell’ordine. Infatti, ha affrontato l’evento con un atteggiamento autoritario. La piazza è stata trattata come una “trappola”, con posti di blocco e controlli serrati. Il tutto ha contribuito a creare un’atmosfera di tensione e alimentando un’escalation durante la protesta.

Le immagini di quel giorno evocano le storiche manifestazioni contro la guerra in Vietnam. Anche lì, cittadini e studenti si unirono per fermare un conflitto percepito come un’ingiustizia morale, pur a distanza geografica. Oggi, questo stesso spirito di solidarietà internazionale si leva contro le ingiustizie attuali. Tuttavia, è minacciato da un governo che ignora il valore del dissenso, relegandolo a una mera minaccia da reprimere.

In questo contesto, l’introduzione del disegno di legge sulla sicurezza, noto come “anti Gandhi“, si presenta come un attacco diretto ai diritti civili e al diritto di protesta. Questo provvedimento mira a limitare le manifestazioni, imponendo misure restrittive che possono facilmente sfociare in una repressione sistematica del dissenso. La crescita di questa deriva autoritaria deve preoccupare chiunque creda nella democrazia e nel rispetto delle libertà fondamentali. È essenziale che la società civile si opponga a queste tendenze, affinché il diritto di manifestare e dissentire non venga mai messo in discussione.

Il dissenso è un sintomo di salute della democrazia

In una democrazia, il diritto di protesta deve essere garantito e tutelato. La repressione del dissenso non solo è un sintomo di autoritarismo, ma rivela anche una grave incapacità politica di affrontare e gestire le preoccupazioni sociali. Il diritto di protesta è un elemento fondamentale in ogni democrazia; tentare di sopprimerlo è non solo pericoloso, ma anche un segnale di una mancanza di dialogo e comprensione delle istanze popolari. Le manifestazioni non devono essere trattate come un fastidio da eliminare, ma come un’opportunità per avviare un dialogo costruttivo e inclusivo. La repressione della protesta è un fallimento politico. Inoltre, porta a un incremento della tensione e del conflitto, mentre la vera forza di una democrazia risiede nella capacità di ascoltare e rispondere alle voci del suo popolo. La manifestazione a Roma, purtroppo, ha dimostrato che il dissenso viene trattato con sospetto e repressione, creando una spirale di violenza e conflitto.

Le critiche a Israele sono fortemente sostenute da organizzazioni internazionali. Queste hanno identificato molte azioni di guerra come violazioni dei diritti umani e crimini di guerra, tra cui l’uso eccessivo della forza, il bombardamento indiscriminato e il blocco degli aiuti umanitari. Esprimere, come popolo, il dissenso rispetto ad una tale sitazione è un sintomo di salute della democrazia. Ma forse, per questo governo, una democrazia forte e in salute non è un bene, quanto piuttosto un problema da risolvere (possibilmente, con violenza e repessione).

Non tutto è iniziato il 7 Ottobre

Sembrerebbe per molti che la storia del conflitto in Medioriente inizi con la tragedia del 7 Ottobre. Purtoppo però la tragedia inizia molto prima e grava sulle spalle del popolo palestinese. Ignorare anni di violenze e soprusi non solo banalizza una gran parte di storia del mondo, ma crea una narrazione falsata e faziosa che non permette ai cittadini di comprendere il conflitto. Il conflitto israelo-palestinese è una questione complessa e antica, ben radicata nella storia, e non può essere ridotta agli eventi recenti del 7 ottobre.

La narrativa che vede il 7 ottobre come un punto di partenza è limitata, poiché ignora i decenni (se non secoli) di tensioni e scontri. È fondamentale analizzare il contesto storico e le decisioni politiche che hanno tracciato le linee del conflitto odierno. Si dovrebbe cominciare con gli accordi Sykes-Picot e la Dichiarazione Balfour, e continuando con vari piani di spartizione, tra cui quelli della Commissione Peel del 1937 e il Piano Morrison-Grady del 1946.

L’accordo Sykes-Picot del 1916, un patto segreto tra Regno Unito e Francia, definì la spartizione del Medio Oriente dopo la caduta dell’Impero Ottomano. Questo accordo ignorava completamente i diritti dei popoli arabi, mettendo le basi per un conflitto lungo e sanguinoso. La Dichiarazione Balfour del 1917, da parte britannica, si impegnava alla creazione di una “focolare nazionale per il popolo ebraico” in Palestina. La questione preoccupante che che ignorava la popolazione araba che abitava già quei territori. Negli anni successivi, diversi tentativi di risolvere la questione sfociarono in piani di spartizione che acuirono ulteriormente le tensioni.

La Commissione Peel del 1937 suggerì una divisione della Palestina in uno Stato arabo e uno Stato ebraico. All’epoca già si riteneva che la convivenza tra le due comunità fosse ormai impossibile a causa dei crescenti nazionalismi di entrambe le parti. Tuttavia, il piano non fu accettato dalle leadership arabe, che vedevano la spartizione come un’inaccettabile imposizione. Era vista come la diminuzione di un territorio che, a conti fatti, era totalmente e legittimamente arabo. Ma il progetto di creare uno Stato ebraico con il sostegno britannico continuò a svilupparsi​.

La risoluzione 181

La proposta del Piano Morrison-Grady del 1946 fu un’altra delle molte iniziative di spartizione, questa volta supportata da americani e britannici. Prevedeva la suddivisione della Palestina in quattro province: una provincia araba, una ebraica e due sotto amministrazione britannica. Tuttavia, anche questa proposta non riuscì a risolvere le tensioni, in quanto lasciava entrambe le comunità insoddisfatte. Forse, chissà, ad oggi, con tutta l’insana violenza e morte che Israele distribuisce nella Striscia, queste proposte risultano quasi salvifiche. Ma è davvero la guerra che deve ridisegnare i confini e risolvere le controversie? Allora, chi è che tutela il diritto internazionale?

Studiare queste fasi storiche permette di comprendere che il conflitto non è una questione isolata nel tempo. Esso è, anzi, il frutto di decenni di decisioni politiche arbitrardie, spartizioni discutibili ma anche tensioni mai risolte.Aaggiungiamo a questo contesto storico la risoluzione ONU 181 del 1947, ma non andò in porto. Infatti, diede il via alla guerra del 1948, quando Israele dichiarò la sua indipendenza, un altro momento cruciale che ha contribuito a cristallizzare il conflitto attuale.

La guerra del 1948 è conosciuta in Israele come la “Guerra d’Indipendenza” e nei paesi arabi come la “Nakba” (catastrofe). La Nakba è uno degli eventi più cruciali nella storia del conflitto israelo-palestinese. Scoppiata all’indomani della dichiarazione d’indipendenza di Israele, il 14 maggio 1948. Essa fu il risultato diretto della decisione delle Nazioni Unite di spartire la Palestina tra uno Stato ebraico e uno arabo, in base alla risoluzione ONU 181 del 1947. Questa risoluzione fu accolta dalla comunità sionista, ma fu rifiutata dalla leadership araba e da molti Paesi arabi circostanti.

La Nakba

La guerra iniziò come un conflitto tra le comunità ebraiche e arabe in Palestina. Rapidamente si espanse in un conflitto regionale quando gli eserciti di Egitto, Giordania, Siria, Libano e Iraq invasero il neonato Stato di Israele. Gli Stati arabi giustificarono l’attacco come un tentativo di proteggere la popolazione palestinese dalla spartizione e dall’espansione territoriale ebraica. Tuttavia, la superiorità militare delle forze israeliane, supportata da migliori strategie e approvvigionamenti, condusse alla vittoria di Israele.

La guerra si concluse con la firma di armistizi tra Israele e i vari Stati arabi nel 1949. Però, lasciò dietro di sé una questione ancora irrisolta: la sorte della popolazione palestinese. Circa 750.000 palestinesi furono espulsi o fuggirono dalle loro case durante la guerra, diventando rifugiati. L’esodo massiccio, noto appunto come la Nakba, continua a essere un punto di frizione fondamentale. Questo perchè il diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi rimane un tema irrisolto nel processo di pace​. La guerra del 1948 non fu solo uno scontro militare, ma il simbolo di un nuovo ordine geopolitico in Medio Oriente. La nascita di Israele e la conseguente dispersione della popolazione palestinese posero le basi per decenni di conflitto, occupazione e tensioni internazionali, che continuano fino a oggi.

L’analisi del passato dimostra che le tensioni tra Israele e Palestina non nascono con gli eventi del 2023. Anzi, affondano le loro radici in un lungo processo di colonizzazione, spartizione forzata e oppressione. Continuare a ignorare questa storia significa perpetuare una narrativa distorta. Questa narrazione giustifica le violazioni israeliane del diritto internazionale e il loro espansionismo, come quello che vediamo oggi in Cisgiordania e Libano.

La sproporzione devastante nel trattamento delle vittime è alla base di molta propaganda sul 7 Ottobre

L’analisi delle violazioni compiute da Israele a Gaza mette in evidenza una serie di azioni che contravvengono alle norme del diritto internazionale umanitario. In particolare, osserviamo violazioni riguardo al principio di proporzionalità e alla protezione dei civili. A partire dal 7 ottobre 2023, l’offensiva israeliana ha scatenato una risposta militare devastante. La risposta ha colpito indiscriminatamente la popolazione civile e causando decine di migliaia di vittime, tra cui un numero elevato di donne e bambini. Questa sproporzione tra gli attacchi di Hamas e la reazione di Israele ha portato numerose organizzazioni internazionali, tra cui l’ONU e Human Rights Watch, a denunciare l’eccesso e l’indiscriminato uso della forza da parte delle forze israeliane.

Secondo le stime, più di 17.000 palestinesi sono stati uccisi, di cui circa 7.000 bambini e oltre 5.000 donne. In confronto, circa 1.400 israeliani sono stati uccisi, la maggior parte durante i primi attacchi di Hamas. Questi dati evidenziano la gravità della sproporzione nella risposta israeliana e il massacro della popolazione civile a Gaza. I numeri parlano chiaro: il bilancio delle vittime tra i civili palestinesi è drammaticamente superiore rispetto a quello israeliano. Tale squilibrio ha indotto alcuni analisti a parlare di “genocidio” o “pulizia etnica” travestita da operazione di difesa. L’impatto devastante sulla popolazione civile suggerisce che l’obiettivo di Israele va oltre la sicurezza del proprio popolo. Si tratta piuttosto di un’espansione continua, attraverso una violenta colonizzazione, in Cisgiordania e in Libano, e di un dominio duraturo su Gaza. Resta quindi da chiedersi: esistono morti di “serie A” e morti di “serie B”?

La ripetuta violazione dei diritti umani è meno grave del dissenso nelle piazze?

Secondo il DIU, uno dei principi fondamentali è la distinzione tra combattenti e civili. Ciò è stabilito nell’Articolo 48 del Protocollo I aggiuntivo alle Convenzioni di Ginevra del 1977. Questo articolo stabilisce che le parti in conflitto devono distinguere in ogni momento tra civili e combattenti. Inoltre, gli attacchi devono essere diretti esclusivamente contro obiettivi militari. Tuttavia, ci sono state numerose segnalazioni di bombardamenti israeliani su aree densamente popolate di Gaza senza le necessarie precauzioni per minimizzare i danni ai civili. Le accuse riguardanti l’uso di “scudi umani” da parte di Hamas, sebbene gravi e meritevoli di attenzione, non giustificano la mancata adozione da parte di Israele di tutte le misure necessarie per evitare perdite civili. Infatti, l’Articolo 51, paragrafo 5, del Protocollo I afferma che è vietato attaccare i civili o le operazioni militari che comportano un’eccessiva perdita di vite civili in relazione al vantaggio militare atteso.

Israele ha bombardato strutture civili come ospedali e scuole. Tali azioni configurano gravi violazioni delle norme del DIU, in particolare dell’Articolo 19 del Protocollo I, che protegge le strutture mediche. Organizzazioni umanitarie, come la Croce Rossa e le Nazioni Unite, hanno ripetutamente denunciato l’ostacolo imposto da Israele all’arrivo di aiuti umanitari a Gaza. Questa è invece una violazione dell’Articolo 70 del Protocollo I, che garantisce la protezione degli aiuti umanitari durante i conflitti armati.

Un altro 7 Ottobre: tiriamo le somme

In un contesto in cui il diritto internazionale umanitario viene continuamente violato e le voci dei popoli oppressi sono sistematicamente zittite, è imperativo che la comunità non rimanere in silenzio. La situazione a Gaza non è semplicemente un conflitto tra stati. Ad oggi, è una lotta per la dignità, la giustizia e la vita stessa di un intero popolo. Le vittime innocenti di questa guerra non sono solo statistiche, ma rappresentano l’umanità ferita da un’ingiustizia storica.

L’indifferenza e il silenzio complice di fronte a queste atrocità costituiscono una sconfitta per il concetto stesso di giustizia. È tempo di denunciare non solo le violazioni evidenti, ma anche le strutture di potere che le sostengono, inclusi gli interessi geopolitici che alimentano la guerra e la repressione. Non possiamo permettere che le leggi internazionali siano ridotte a mere parole, quando la loro applicazione è fondamentale per il futuro dell’umanità. La lotta del popolo palestinese per la libertà deve essere sostenuta da una coscienza globale. Perchè il diritto di esistere e di vivere in pace non è negoziabile. In questo momento storico, è imperativo schierarsi con Gaza.

Maria Paola Pizzonia