Quando uno stupro è tale? Se il processo alle intenzioni, in alcuni casi, diventa parte della violenza stessa allora quello che va circoscritto non è il trauma in sé, ma tutti i suoi dolori a venire. Quando si scrive un libro sullo stupro, ci si aspetta un racconto crudo e struggente sull’atto di violenza, quello che invece è riuscita a fare Valentina Mira con il suo libro di esordio X, edito da Fandango, è rappresentare tutti gli stupri che vengono subìti a partire da una sola violenza. Non c’è misura al dolore se non c’è la sua identificazione, se non c’è tutela, se non c’è rispetto. Ed è dal racconto di una violenza, che Valentina Mira esamina la fenomenologia stessa dello stupro, a partire dall’indifferenza alla realtà femminile, alla distorsione della sessualità, all’abuso politico di una realtà che non soltanto giustifica, ma prosegue lo stesso atto violento.
Se c’è un abisso dentro lo stupro, è una violenza senza tempo: perché una fine non è detto sia anche un finale. Lo stupro non è soltanto di chi lo vive, è una violenza collettiva in un processo che ci rende sempre coinvolti. Ma se il dolore può non consumarsi mai, che la violenza finisca ora. Ne abbiamo parlato con Valentina Mira, a partire dal suo libro X, in questa intervista.
L’intervista a Valentina Mira, autrice del libro X
Valentina Mira, X è il tuo libro di esordio, ma sognavi di fare la scrittrice da quando eri bambina. Non penso, però, tu potessi mai immaginare di poter iniziare proprio da un tema del genere. Come ti fa sentire, è il modo più giusto incominciare “dal dolore” per esorcizzarlo?
È vero, non avrei voluto esordire con un libro del genere e non solo da bambina. O meglio: al momento giusto avrei voluto che un libro del genere esistesse per me come lettrice, mi avrebbe fatta sentire meno sola, compresa, mi avrebbe fatto capire – sentire – che la vergogna non era la mia né lo è mai stata; non avrei voluto scriverlo io perché sapevo che voleva dire obbligarsi alla lotta, a scucirsi di dosso le narrazioni che vengono fatte di te giorno dopo giorno, e lo fai anche quando le forze ti mancano perché una volta che ci pubblichi un libro sopra non è più solo roba tua. Ciononostante credo che X sia stata la miglior cosa che abbia fatto in questi trent’anni di vita.
Sui social – al contrario di tutte le tue coetanee – sei molto riservata, però riesci a raccontare la tua storia in un libro che chiunque può leggere. Perché hai scelto proprio questo strumento per presentarti al mondo?
Prima non ero così riservata sui social, ho deciso di diventarlo con l’uscita di X. Sapevo che ci sarebbe stata della curiosità, anche morbosa, ed ero consapevole che sul mio profilo non avrebbero trovato quello che davvero ci tengo a dire per il semplice fatto che non è il mio mezzo d’espressione. Quello che davvero ci tengo a dire è inevitabilmente nei libri, perché sono cresciuta così, ero la bambina che a scuola stava zittissima, quella con la testa tra le nuvole, vivevo leggendo e scrivendo e per quanto la mia maschera sociale sia ormai collaudata (non sto più zitta, è evidente) sono rimasta quella persona là, io mi esprimo così.
La copertina di X è uno scudo per scongiurare qualsiasi ipotetico pattern vittimistico. C’è una grande differenza tra essere vittime ed essere reduci. Raccontaci questo trapasso.
Lo sguardo incazzato nero della modella in copertina (Chloe Simoncioni) era un tentativo in tal senso, poi naturalmente non basta né quello né il contenuto del libro a evitare che chi è imbevuto del punto di vista dominante e vittimistico sullo stupro ti affibbi di tanto in tanto, e in automatico, certe etichette e interpretazioni. Era questo che intendevo dicendo che è uno scontro quotidiano a scrollarsi di dosso narrazioni non tue. Mi chiedi della differenza tra essere vittime e reduci: io non mi definisco né vittima né reduce. Non reduce perché non sono mai stata in fin di vita e di certo non a causa di un uomo (anche se non è infrequente, poteva capitarmi, non mi è capitato). Non vittima perché, a parte la mia formazione giuridica che mi obbliga a considerare vittima e reo due categorie definite da una sentenza passata in giudicato e basta, la vittima è per antonomasia passiva e definita in eterno da qualcosa che le è successo. In particolare sullo stupro ci sono delle aspettative-cliché sulle “vittime”. Sono talmente tante che non è possibile riassumerle qui, ne cito solo una perché mi è capitata da poco sotto gli occhi; leggevo un articolo di Open sulla denuncia per stupro a Ciro Grillo e compagnia, e ci si soffermava su un messaggio vocale in cui lei diceva di aver avuto rapporti con un certo numero di persone nella vita. Nei commenti a quell’articolo più di uno scriveva “non mi sembra così tanto una vittima…”. Come se alcune meritassero lo stupro, al punto che se non corrispondi all’identikit della vittima perfetta – spoiler: tendenzialmente è morta e a volte non basta manco quello – non puoi essere violentata.
Stupro e cultura dello stupro: è sempre un atto politico?
Se consideriamo anche solo i dati (più di 40mila stupri l’anno solo in Italia, di cui il 90% non viene denunciato) mi viene da dire che sì, lo stupro ha una rilevanza politica. Riguarda troppe vite per non averne una. Se intendiamo poi lo stupro come qualcosa che può arrivarti da una sola parte politica sbagliamo – benché i fascisti siano sessisti per Storia e pensiero. Lo stupro è trasversale e il suo unico colore è il genere (9 su 10 denunce per stupro sono di donne e anche nell’ultimo caso, quando a denunciare è un uomo, non di rado è stato un altro uomo). Questo non vuol dire né negare né ridimensionare i casi in cui è una donna a fare violenza: presentando X ho conosciuto qualche uomo abusato dalla madre o da una tata, dunque in un rapporto di potere chiaro. È il potere secondo me, e la sua distribuzione, che fa sì che rispetto alle donne si tratti di un problema strutturale, non eccezionale. Per non parlare di quanti stupri colpiscono in percentuale le persone trans. Parlando di potere: chi ha una disabilità ha il 10% di possibilità di essere violentata rispetto al 4,7% di chi non la ha. Ma la smetto o parlerei per ore.
Questo libro è stato un atto di resistenza o di esigenza? Perché per superare alcuni dolori, a volte bisogna raccontarli, se necessario condividerli, forse anche diffonderli.
Tutte e due le cose e nessuna delle due. La resistenza è un concetto collettivo e più alto di un libro o di una sola persona, tuttavia X è stato uno dei modi in cui ho riaffermato il mio diritto a esistere (resistenza come ri-esistenza, quindi) e a raccontare cose che mi riguardavano dal mio punto di vista respingendo ai vari mittenti la vergogna. Esigenza, invece, lo è stata di certo ma mi sento di distinguere: psicologicamente mi serviva scriverlo, non pubblicarlo. Ero consapevole dal momento zero che pubblicarlo sarebbe stato foriero di problemi psicologici ulteriori, non da ultimo il peso di un tour di presentazioni in cui ho incontrato persone splendide ma anche gente che si sente legittimata a chiedere cose intime, pruriginose, talvolta politicamente infami. Lo sapevo ed ero pronta. Il post-X è un ulteriore esercizio a dire di no quando necessario. Però tutto questo, benché abbia sperato per anni che lo facesse qualcuna di più strutturata, di più forte, con le spalle più coperte delle mie, alla fine ho realizzato che l’importante era farlo. E che in fondo non mi mancava niente per poterlo fare io, solo l’autostima.