I talebani invadono Kabul e scende di nuovo il buio. Come in una scena di “Come pietra paziente” di Atiq Rahimi, la storia ritorna oppressione, l’evoluzione preclude la condanna, la libertà si piega al terrore. Afghanistan e donne, quello che si prepara a essere già l’editoriale di un’annata terroristica, il titolo storico di una futura tesi di laurea con l’aggiornamento al 2021, quando a Kabul ritorna il buio, anche fuori dal burqa. Era il 2012 quando il regista Atiq Rahimi aveva rappresentato al cinema la condizione delle donne in Afghanistan. La terra di nessuno, del terrore, occupata dai padroni talebani che dietro gli abusi inneggiavano a un’ipocrisia di sistema che scardinava qualsiasi status politico e sociale. Ma quel bluff oggi sembra annichilire nuovamente la condizione del popolo afghano, delle donne dimenticate, all’alba di una nuova ondata di occupazione e governo. E qualsiasi vacua promessa anche questa volta riecheggia con l’atrocità antica che ora tocca (ri)vivere.
I talebani avrebbero perdonato i nemici, rispettato le donne… ma il sentore come puzza di putrefatto, ci ha fatto già vedere nei volti vuoti e spenti che passavano veloci e confusi al telegiornale quella che è una nuova vecchia fuga dalla disperata realtà. Un’avanzata più veloce del previsto, e via riversati in strada tutti in coda verso la banca, uomini e donne in fuga da Kabul, di chi precipitava dall’aereo decollato aggrappato – letteralmente – alla paura dell’orrore. E una fotografia già storica di chi ha lanciato il proprio figlio oltre le reti di filo spinato ai soldati britannici in prova di salvezza. L’arrivo dei talebani è risultato inarrestabile, ora coprono i murales con la bandiera iraniana e i rivoluzionari stilizzati. Ma coprono anche, fuori dagli scenari politici, i volti di qualsiasi donna che sia esposta pubblicamente fuori da una locandina dei negozi.
Afghanistan e donne, la guerra nella guerra
C’è una cantilena in lontananza, che si può già sentire dentro questa tregua apparentemente lenta e comprensiva, di chi tenta la diplomazia non per ottenere il potere ma gli strumenti per esercitarlo. Dato che, si sa, “i talebani stanno facendo i diplomatici perché hanno bisogno della comunità internazionale, e hanno bisogno della comunità internazionale perché hanno bisogno di soldi.”. E intanto si inveisce contro chi – in giro per Kabul –ha sfilato in supporto alla resistenza nel Panshir a favore delle dei diritti delle donne e contro l’invasione pachistana. Ma c’è una guerra nella guerra, una disperazione nella tragedia, che supera il conflitto e corrode nella condizione. Sono le donne che già scendono per le strade dell’Afghanistan per implorare di non finire ancora ai margini della società. Se l’ultimo ventennio è servito per costruire scuole femminili a Kabul, è bastata l’avanzata per chiuderle e ammazzarne le professoresse. Dentro c’erano le donne nate dopo il 2001, quelle che non sanno cosa significa vivere sotto i talebani e che non avevano previsto di doverlo scoprire. Dopo essere stata presa dai talebani, Herati ha chiuso tutte le università: e il 60% degli studenti erano donne. Se associazioni promotrici e sostenitrici hanno per decenni sorretto un’evoluzione che fosse la natura libertà del “sesso inutile” – vi ricordate forse il libro della Fallaci? – oggi restano prigioniere anche queste. Ora le donne di Kabul chiudono i loro profili social perché dove arrivano i talebani gli smartphone sono proibiti. Anche la musica. Anche uscire per strada da sole, non accompagnate da uomini. D’altronde, in sintesi, come ci sta raccontando la giornalista Magda Gad rimasta in Afghanistan, “ci sono semplicemente due differenze, rispetto a prima, girando per le strade: i talebani armati e nessuna donna”.
Però hanno ragione quelli di Economy of Francesco, i promotori dell’iniziativa EoF global march: “Le donne afghane esistono. Together we stand!”. E non possiamo lasciarle di nuovo dopo 20 anni nel silenzio della sottomissione. La morsa di chi rastrella le case per fare delle donne il bottino di guerra, di chi riconoscerà nell’istruzione di una donna una pena da scontare. E intanto il governo si sta per formare, un governo che non includa la donna se non a livelli minimi, rispettando quella che è la legge islamica che spegne la luce sul futuro del genere femminile. Quasi fosse una caccia alle streghe, che siano soltanto donne. Quasi fosse la caccia alle donne di Kabul. In Afghanistan si fa il passo indietro, ma è il potere della connessione che può questa volta impedire il disastro. Se in Afghanistan si è spento il giorno, è qui dove c’è cielo che tocca mobilitare la comunità internazionale e civile. Ogni donna che in Afghanistan oggi si chiede cosa ne sarà del suo futuro e della sua vita non ha mezzo alcuno per cambiare la risposta. Lo può fare un abbraccio globale, lo possiamo fare noi: associazioni come Pangea, Economy of Francesco, Sit-in, presidi, e iniziative sociali. Affinchè “Se anche solo una donna afghana riuscirà a sapere che in Italia e nel mondo, ci sono altre persone, altre donne, che manifestano per loro, non si sentiranno sole”.