Aftersun, la recensione: la sofferenza invisibile agli occhi

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Di Alessandro Libianchi

Sono gli anni Novanta. Un padre e una figlia, Calum e Sophie, passano due settimane estive in un afoso villaggio turco. Non vivono insieme, i genitori si sono separati e lei vive con la madre. Questo è uno dei pochi momenti che possono passare veramente insieme. I due sembrano felici e spensierati, apparendo quasi come fratello e sorella ai nostri occhi e agli occhi degli altri turisti. Ma Calum non lo è davvero, nasconde una sofferenza che è invisibile agli occhi. Una sofferenza che ci è concessa vedere in solo rare occasioni.

Lui è un papà poco più che trentenne con una figlia di undici che solo con lo scorrere del film ci lascerà entrare nel suo guscio. Lasciando allo sguardo spettatoriale la facoltà di penetrare attraverso quel “gesso” mentale che tenta di coprire il suo malessere a Sophie.

Aftersun, la recensione: uno sguardo filtrato

Sophie e Calum – la fotografia non mente mai

Sono tanti i momenti di Aftersun in cui capiamo che qualcosa non va, che quella spensieratezza è di facciata. Prima ancora dello sguardo di Paul Mescal (viene candidato al suo primo Oscar non a caso), che riesce con gli occhi a trasmettere un senso di inquietudine incredibile, è l’aria di costante malinconia che Charlotte Wells riesce a dare a tutto il film. Un’opera prima fatta di piccoli gesti, di piccoli momenti, di ricordi che si susseguono senza una linea temporale precisa, proprio come se osservassimo la loro vacanza attraverso un video registratore. Ed è anche il taglio registico preciso e marcato che la Wells vuole dare alla pellicola, come se fosse interamente un grande filmino delle vacanze estive.

Tutta la vacanza, infatti, viene documentata da una Panasonic che li riprende in ogni angolo e attraverso ogni sorriso, impressionando per sempre sulle cassette quella felicità che non tornerà più. Sophie ripercorrerà, ormai adulta, quel percorso fatto di ricordi, di attimi vissuti con papà.

La tenerezza di un ricordo

Aftersun è un piccolo miracolo, il primo lungometraggio di una regista che sa già quale strada percorrere, con una forte identità e un amore spassionato per il cinema. E questo amore trasuda tutto nel film, che come racconta lei è in parte tratto dalla sua esperienza personale con il padre. Fino allo struggente finale, che rivela quello che la Wells voleva raccontarci e ci lascia con più domande che risposte.

È un film intimo, dolce e mai stucchevole, un gioiello che in punta di piedi entra nel cuore dello spettatore. Proprio come fa Sophie, interpretata da una fantastica Francesca Corio, debuttante come attrice che nonostante i suoi tredici anni sembra già vissuta, che si fa carico di un malessere che una bambina non dovrebbe portare.

Aftersun risulta un’opera particolare, non adatta a tutte le sensibilità e che può appesantirsi in alcuni momenti, soprattutto alla prima visione, in cui non risulta subito chiaro cosa ci voglia raccontare la giovane regista. Ma, proprio come una polaroid, il film piano piano nasce dal foglio bianco e ci svela tutte quelle immagini che teneva nascoste sotto di sé e che non aspettavano altro che essere svelate.

Alessandro Libianchi

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