La splendida primavera di Alessio Bondì non indossa il colore che le si addice: la scelta cromatica per vestire il suo nuovo, secondo album di studio è più in sintonia con la giornata di oggi, un 2 di novembre. Il titolo scelto suggerisce eleganza ma anche lutto, prosperità così come abisso, morte necessaria per un’altrettanto necessaria rigenerazione. Proprio come la tredicesima carta dei tarocchi: tutt’altro che negativa, dimostrazione di una scelta compiuta, di un inferno alle spalle.
Il titolo del disco nuovo è “Nivuru”: ‘nero’, in dialetto palermitano. Ma è un luminoso, fiorito percorso di armoniosa rinascita quello che il cantautore ci indica con la mano, subito prima di imbracciare la chitarra e cantare nove brani pieni di vita e attraenti come non mai.
Ad un primo ascolto si resta quasi spiazzati dalla sfrenata ricchezza di suoni, timbri, colori e umori sprigionati dai 45 minuti di questo viaggio musicale intorno al mondo: già, perché “Nivuru” è vivace, estroverso, libero, sorprendente, fresco e sensuale. Alessio lo ha immaginato, scritto e cantato nuovamente in dialetto palermitano, come già era accaduto tre anni fa con “Sfardo”, il suo disco d’esordio. Ma poi ha voluto portarci lontani dalla sua isola, vento in poppa alla scoperta.
Le sue carte di navigazione ci hanno portati fino in Africa: le “fotografie” scattate tramite le canzoni sono istantanee di blues del deserto del Sahara, di afro funk nigeriano, di morna capoverdiana, di gnawa marocchina. Fai in tempo ad abituare l’orecchio ma è già tempo di rialzare le vele e navigare altrove. In Sud America stavolta: a ritmo di cumbia oppure in Brasile, terra di samba ma non solo. E l’aspetto più affascinante è che più ci si allontana dalla Sicilia e più la si sente accanto, in filigrana, come un richiamo di sirena evocato dal canto in dialetto palermitano di Bondì, una litania stellata di tradizioni secolari, di poesie di Buttitta o di favole raccolte da Pitrè, un abbraccio caldo che pare invisibile e che invece si fa sentire in profondità.
E così, al crocevia di tante musiche (cui aggiungiamo anche la classica ballata soul di provenienza statunitense) ritroviamo un artista in forma strepitosa, che si dimena in ritmi sinuosi e melodie avvolgenti. Mai come oggi il suo lavoro è un lavoro di gruppo: non più bardo da camera da letto, chitarra acustica e un filo di voce (come spesso capitava nel disco precedente, “Sfardo”), piuttosto novello Salgari trentenne, stregone a capo di una band colma di fiati, sezioni ritmiche, archi, percussioni. Insomma, padre di un album arrangiato, suonato e davvero ricco di tante idee melodiche e armoniche. Padrone di una festa che invita a ballare e a lasciare alle spalle.
Distratti dal party esotico, solo dopo numerosi ascolti ci si renderà conto fino in fondo del secondo strato, quello pseudo-nascosto dietro e intorno a tanta esuberanza e schizzi vivaci sulla tela.
Ed è la riflessione profonda, il bisogno di solitudine, di riflessione, di equilibrio, di pace e stabilità al termine di un burrascoso rapporto sentimentale. C’è (non solo, ma soprattutto) questo nell’animo di Bondì e traspare in penombra, leggendo le traduzioni dei testi delle canzoni.
“Nivuru” è decisamente un album di innamoramento e amore, dal corteggiamento iniziale fino ai crampi, l’afasia e l’isolamento che seguono i titoli di coda, le conseguenze di una relazione in cui si è creduto ma che hanno portato appunto al “nero”, il colore che assorbe ogni luce senza rilasciare altro. A questo si è arrivati, proprio questo si è cantato con tanta eclettica ricchezza di toni e timbri, da questo si ripartirà.
Ed è sempre difficile (quanto meno poco utile, almeno a nostro avviso) lasciarsi andare alla solita abitudine di scegliere, fare elenchi puntati o classifiche del brano che più ci ha colpito, della canzone che abbiamo sentito appartenerci forse più dello stesso autore, in una girandola di coincidenze e circostanze assortite. I più romantici e malinconici prenderanno forse per mano “Si Fussi Fimmina”, primo singolo scelto per presentare “Nivuru” al mondo: una ballata zampillante luce e sentimento, espressiva e dirompente nella sua fragilità. Alcuni magari adotteranno i ritmi rilassati, funky e conturbanti di “Ghidara”, mentre altri si lasceranno sorprendere dalla spiazzanti mutazioni genetiche di “Café”, dalla cumbia misteriosa di “Dammi una vasata” o dal folklore siculo racchiuso nell’immaginario testuale di “Nivi nivura” che va concludere questo album così interessante, fragile e forte al tempo stesso, senza dubbio tra i più belli e interessanti di questo 2018. Anno musicale che parla – almeno a livello di hit parade e dischi d’oro – ben altre lingue ma che poi ci racconta anche storie come questa. Di un cantautore che cresce, si evolve, sa cambiare le carte in tavola e farci partecipi di una vertigine sonora che incanta, illuminando ogni nuovo ascolto.
Ariel Bertoldo