Alias Grace o l’irrilevanza della verità – recensione

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Di Redazione Metropolitan

Parla una giovane donna di nome Grace: «Penso a tutto ciò che è stato scritto su di me… Che sono un demonio disumano; che sono la vittima innocente di un farabutto e ho agito contro la mia volontà e dietro minaccia di morte; che ero troppo ignorante per capire cosa stavo facendo e che impiccarmi sarebbe un crimine giudiziario; che sono vestita bene e con decoro perché ho rubato i vestiti a una donna morta; che ho un brutto carattere e un temperamento litigioso; che sembro una persona al di sopra della mia modesta posizione sociale; che sono una brava ragazza, di indole docile e con una buona reputazione; che sono astuta e scaltra; che sono un po’ ottusa e poco meno che idiota… E mi domando: come posso essere tutte queste cose insieme?».

Margaret Atwood, autrice del libro da cui è tratta la serie (foto dal web)

Un monologo, pronunciato con una voce carezzevole e sommessa, pacata, che ci fa pensare immediatamente a segreti celati dietro porte di legno. Così comincia Alias Grace, miniserie televisiva suddivisa in sei episodi da 45 minuti ciascuno, co-prodotta dal network canadese Cbc e da Netflix. Tratta dal romanzo di Margaret Atwood – autrice di The Handmaid’s Tale, conserva un’impronta estremamente femminile grazie all’apporto di altre due donne, la regia di Mary Harron – American Psycho – e l’elegantissima sceneggiatura di Sarah Polley – Stories We Tell.

L’altra Grace si ispira alla storia di Grace Marks, cameriera di origine irlandese che nel 1843 venne condannata, assieme a James McDermott, per l’omicidio del suo datore di lavoro Thomas Kinnear e Nancy Montgomery, sua governante e amante. McDermott venne condannato a morte per impiccagione; la pena capitale per Marks venne commutata in 30 anni di carcere, i primi dei quali trascorsi in manicomio. Le venne concessa la grazia dopo 29 anni, lasciò il Canada per trasferirsi a New York, dove si persero le sue tracce per sempre.

Grace e la sua amica Mary Whitney (Foto presa dal web)

Questa è la storia, ma in Alias Grace c’è molto, molto di più. Appare subito chiaro come la narrazione si strutturi in una riflessione sullo statuto della verità quando, a presiedere la narrazione stessa, vi è un essere umano. Riflessione tutt’altro che ignota al pubblico delle nuove serie tv, affrontata ad esempio in The OA – dove il dubbio si insinua a causa dell’acclarata inaffidabilità del narratore – o in Mindhunter, dove sono i serial killer stessi a rievocare le proprie gesta, nelle piena libertà di mentire o meno, ingigantirle o giustificarle.

Anche qui le vicende si dipanano quasi esclusivamente attraverso la narrazione della protagonista in un tête-à-tête con il dottor Simon Jordan, incaricato di verificare se Grace sia o meno affetta da “isteria”. Colloquio dopo colloquio i due ripercorrono la storia che ha condotto la ragazza in carcere, accompagnando lo spettatore a riflettere sull’oppressione della donna e sul maschilismo che nel passato (e forse non solo, c’è da riflettere molto bene) ha permeato l’intera società occidentale: “sono una vittima o un mostro?”. Non vengono fornite altre possibilità, proprio come viene esplicitato dal monologo e dal relativo interrogativo che apre il sipario sulle vicende. Elemento che funge quasi da ago della bilancia è la violenza relegata ma esplicitata dai flashback che la protagonista ha sugli abusi subiti durante l’internamento in manicomio. 

Contrapposta alle dinamiche di potere che si instaurano tra padrone e serva – tra uomo e donna – le tre autrici sono attentissime a far risplendere di intimità e profondità l’amicizia femminile, a esaltare il coraggio che questa può donare nei momenti in cui sembra non esserci più speranza. Il legame tra Grace e Mary Whitney viene mostrato come qualcosa di prezioso, così importante e forte da riuscire a fungere da balsamo per le sevizie subite. Funziona quasi come uno sbocco fantasioso in una vita del tutto priva di giocosità e spensieratezza. A questa relazione viene contrapposta quella con Nancy – governante di Thomas Kennear. Attraverso di essa le autrici sviluppano la riflessione sull’insensatezza della competitività tra donne, spesso imposta proprio dalla società maschilista attraverso processi manipolatori e di oggettificazione del corpo.

Lo sguardo di Grace mentre viene portata via da due secondini (Foto dal web)

Ma se c’è – e c’è – una chiave di lettura principale per Alias Grace è sicuramente l’ambiguità. Le autrici procedono costruendo una narrazione che finisce per dipanare gli eventi ma intrecciare sempre più fittamente la psicologia della protagonista, tanto da impedirci di giungere alla verità. Il nostro eventuale giudizio sull’innocenza o la colpevolezza di Grace – sono sicura che molti di voi finiranno per vederla come me – vorrà lanciarsi, essere espresso, uscire dalla vostre labbra. Finirà per rimanere incastrato tra i denti, trattenuto sulla punta della lingua. Gli occhi che ci presenta la magistrale recitazione di Sarah Gadon sono a volte innocenti, a volte scaltri o sconcertanti, così come le sue riflessioni, sia quelle dette che quelle taciute.

Il dottore Simon Jordan intento ad interrogare Grace sulle sue vicende passate (Foto dal web)

Il tutto viene reso solido, melodioso ed elegantemente letterario anche grazie al fortissimo simbolismo che permea ogni puntata e che va a esplorare molti degli aspetti quotidiani della vita di una giovane donna del XIX secolo. Basti pensare alla riflessione sul letto stimolata dalla trapunta – e dal significato dei suoi disegni – un vero e proprio tocco di sensibilità: «Perché voi, signore, potete pensare che un letto sia una cosa pacifica. Per voi può significare riposo, comodità, una bella notte di sonno. Ma non è così per tutti. Molte cose pericolose possono succedere in un letto. È lì che nasciamo… Affrontando il primo pericolo della nostra vita. È lì che le donne partoriscono, e quello spesso è l’ultimo per loro. Ed è lì che avviene l’atto tra uomo e donna, signore… Di cui non vi dico il nome, ma suppongo che lo sappiate. Qualcuna lo chiama amore… Altre disperazione. Altre semplicemente un’umiliazione che devono subire. E, infine, è nei letti che dormiamo… Sogniamo. E spesso moriamo».

In sostanza ci troviamo di fronte ad un Hitchcock contestualizzato nella pesantezza e nell’oppressione – fotografica e non – presentate in The Handmaid’s Tale, con una raffinatezza e una competenza del tutto femminili. Verrete rapiti, confusi e impauriti, ma a modesto parere di chi scrive, non potrete esimervi da amare quest’opera e cercare di riuscire ad afferrarla fino in fondo, senza mai riuscirci.

Gaia Cocchi