Nell’introduzione di Fernanda Pivano al libro Jukebox all’Idrogeno, dove la prima poesia è “Urlo”, viene raccontata una storia particolare. Una storia che stringe insieme nel cerchio di Urlo non solo Allen Ginsberg, ma molti dei protagonisti della Beat Generation inclusa la stessa Pivano.
Prosodia bop
Howl è una poesia composta da tre parti ed una nota a piè di pagina. Centoventisette versi di disperazione urlati attraverso una costruzione in quella che da Ginsberg e Kerouac viene definita «Prosodia bop». Il verso calcolato sulla capacità del respiro di recitarlo, così come nelle improvvisazioni del Be-bop di Charlie Parker. Si capisce, ed è storia vecchia, come queste siano opere nate per essere lette davanti ad un pubblico, nei famosi “reading”.
Urlo sotto accusa
Così, dopo aver sentito recitare Urlo, Lawrence Ferlinghetti, poeta Beat ed editore, decide di darla alle stampe nelle edizioni City Lights Book. Il libro ebbe grande successo ed oltre agli onori porta con sé le ire funeste di un certo numero di accusatori. L’azione legale parte per opera del dirigente degli uffici doganali che si rivolge al Tribunale dei minori abducendo che il libro potesse turbare la coscienza dei bambini, qualora ne venissero casualmente a contatto.
Come da incipit della Pivano «Nel giugno 1957 Lawrence Ferlinghetti, poeta ed editore, fu condotto nella prigione di San Francisco». Non può che affiorare alla mente il parallelismo con la sorte subita dalla stessa autrice e dall’allora suo docente Cesare Pavese, alla pubblicazione sotto banco della traduzione dell’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters, da loro curata durante il Ventennio.
Risonanze sorde
Il giudice fa cadere le accuse di oscenità e tra le motivazioni assunte, per l’ennesima volta nella storia, ci si trova di fronte ad una analisi delle parole etichettate come volgari, che secondo il giudice non possono essere oscene se non siano ispirate da piacere erotico. I riflettori così si accendono abbagliando l’opera ed una certa critica. Ginsberg se ne rammarica, capisce presto che tale tipo di fama non fa che stendere veli pesanti sul significato profondo dell’opera, lasciandone trasparire solo la superficie.
Inferni resistenti
E le opere di Ginsberg profondità ne hanno a non finire. Leggendole ci si ritrova dentro un quadro di Escher o una incisione di Piranesi. Labirintici sono i suoi testi; ad ogni porta che si apre se ne incontrano altre, ancora da scoprire. Ma tutto questo è già storicizzato, già scritto, già detto. Come ben approfondito è ciò che Ginsberg, con la sua opera, ha portato alla cultura americana del pre-sessantotto.
Ma a noi, che nasciamo sessant’anni dopo, e viviamo nel secolo successivo, cosa ha lasciato? Certamente in Italia Dio è morto grazie a Ginsberg, e non me ne vorrà Guccini che anzi, ha sempre ammesso l’ispirazione trovata tra Urlo e la filosofia Nietzscheana. Ma come afferma lo stesso Guccini «se Dio muore è per tre giorni, e poi risorge», e tale resurrezione è continuamente presente nella poesia di Ginsberg.
Eredità in potenza
Una resurrezione che passa per la lotta, certo, ma una lotta solitaria, interiore, propria. Contro la massificazione delle coscienze, e per lo sviluppo autonomo e personale del proprio mondo culturale e dello spirito critico. Una apologia del pensiero divergente, e di un intellettualismo complesso, che stringe la mano certamente alla filosofia di Edgar Morin. Contrastando la tendenza alla specializzazione dell’uomo che, in effetti, ha rappresentato l’orientamento culturale dell’ultimo secolo.
E noi amatori, che vediamo ancora le «migliori menti della nostra generazione distrutte da pazzia», anche grazie alla purezza di Ginsberg lottiamo ancora, torturando le nostre menti ogni qual volta un altro Angelo cade, sognando Denver o Rockland, sopportando e combattendo il nostro Moloch personale.
Laura Piro