NBA, i 10 più grandi momenti del decennio

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Di Redazione Metropolitan

Vediamo 10 momenti che hanno definito l’ultima decade NBA e che sono entrati di diritto tra le pagine dei libri dello sport con la palla a spicchi.

10 – Linsanity

Avevano colpito le lacrime che Jeremy Lin aveva versato durante un’intervista in Taiwan la scorsa estate, nella quale l’ex Raptor aveva espresso tutta la sua frustrazione per il mancato interessamento da parte delle franchigie NBA durante la free agency. Rassegnato, alla fine aveva deciso di accasarsi in Cina, ai Beijing Ducks. Ma c’era stato un tempo in cui Lin era il giocatore al centro della scena NBA. Nel Febbraio del 2012, dopo mesi a scaldare la panchina dei Knicks viene fatto partire in quintetto da D’Antoni.

In quel mese fa registrare numeri da record per un giocatore alle sue prime partite da titolare. 89 punti nelle prime tre, 109 nelle prime quattro e 136 nelle prime cinque, tra cui 38 segnati in faccia a Kobe Bryant. Un mese di piena espressione di onnipotenza cestistica che venne amplificata dal fatto che, avendo lui origini asiatiche, l’attenzione sul nuovo fenomeno mediatico si era allargata fino in Cina. Tutti, non solo al Madison Square Garden, in quel febbraio avevano in mente solo nove lettere: L-I-N-S-A-N-I-T-Y. Quella di Jeremy è una delle più belle favole di sempre.

Jeremy Lin - NBA
Photo Credit: Reuters

9 – D-Rose più giovane MVP della storia

«Perché non potrei essere l’MVP della lega? Perché non potrei essere il miglior giocatore della lega? Non vedo perché.» Questa fu la risposta alla domanda sulle sue aspettative per l’imminente stagione posta da un giornalista ai Media Day nell’estate del 2010. Il giovane Rose veniva da due annate che l’avevano visto protagonista di una prima stagione da ROTY e un ottimo anno da Sophomore. Durante la terza compie il definitivo salto di qualità e guida i suoi Bulls a un record di 62 vittorie e 20 sconfitte, raggiungendo la cima della Eastern Conference.

Per lui 25 punti, 4,1 rimbalzi e 7,7 assist ad allacciata di scarpa, conditi da una serie di giocate spettacolari. Vere e proprie pennellate impressioniste. Tutti fattori che lo porteranno quell’anno a diventare il più giovane MVP mai esistito. Senza l’infortunio dell’anno dopo e la serie di maledizioni che lo colpiranno più avanti, Rose sarebbe potuto diventare uno dei padroni assoluti della lega. Ma la sfortuna è una carogna infida e Derrick rimarrà per sempre uno dei più grandi “What if” della storia.

8 – Ray Allen e “The Shot”

«Nessuno può segnare questo tiro se non si chiama “Ray Allen”». Così Flavio Tranquillo aveva commentato uno dei tiri più iconici non solo delle Finali NBA ma anche della storia del gioco. Un gesto tecnico, tanto bello quanto letale, che effettivamente poteva essere eseguito solo da uno specialista come Allen. D’altronde devi averci vissuto quasi tutta la vita dietro la linea di tre punti per conoscerla come la conosceva lui. E solo lui poteva poteva scrivere quel trattato di sport in movimento.

Quando Chris Bosh salta a rimbalzo e gli passa la palla, Allen lo sta guardando e già sta indietreggiando mettendo i piedi nella posizione giusta per far partire il tiro e pareggiare la partita a cinque secondi dal suono della sirena. Se non fosse stato Ray Allen, probabilmente gli Spurs avrebbero vinto il titolo e non si sarebbe andati a gara 7. E invece saranno i Miami Heat a vincere quell’anello e Sugar Ray entrerà nell’Olimpo del basket.

Ray Allen "The Shot"
Photo Credit: Derick E. Hingle/USA TODAY Sports

7 – Russ e la tripla doppia stagionale

C’è chi lo chiama “stat padder” e pensa che il suo gioco sia esclusivamente focalizzato sul fare registrare numeri su numeri. C’è poi chi pensa che col suo modo di giocare Westbrook abbia dato un contributo significativo a una squadra che non aveva granché da offrire. Al di là di questa disputa che potrebbe benissimo lasciare il tempo che trova, quello che ha fatto Russell Westbrook dal 2016 al 2019 è leggendario. Già riuscire a finire la stagione con una tripla doppia era quasi impensabile – solo Oscar Robertson era riuscito nell’impresa – ma farlo per tre stagioni consecutive va oltre.

Probabilmente il play dei Rockets sarà uno dei pochissimi, se non l’unico, a riuscirci da qui in avanti (occhio a un fenomeno di nome Luka). Altrettanto titanica l’impresa di replicare ciò che Russ ha fatto nella stagione della prima tripla doppia stagionale, quella del 2016/2017, quando fece registrare cifre folli: 31,6 punti, 10,7 rimbalzi e 10,4 assist di media in ben 81 partite. Non a caso quell’anno vinse il suo primo titolo di MVP.

Russell Westbrook NBA MVP
Westbrook con il titolo di MVP – Photo Credit: Keystone

6 – KD agli Warriors

Quando abbandoni la città in cui sei cestisticamente cresciuto ma che non ti ha saputo portare al titolo e vai via a formare un super team con cui quasi sicuramente vincerai l’anello, è facile che tu possa passare dall’essere uno dei giocatori più amati a uno dei più disprezzati. È successo a Lebron (ne parleremo più avanti) ed è successo anche a Kevin Durant. L’attuale giocatore dei Nets dopo l’ennesimo fallimento dei suoi Thunder ai playoff aveva deciso che non avrebbe passato la carriera ad essere considerato il fenomeno che non avrebbe mai indossato l’anello.

Il suo passaggio ai Golden State Warriors, reduci da una stagione leggendaria, però secondo alcuni era stato fin troppo. Molti, memori del veto NBA sulla trade che avrebbe portato Chris Paul ai Lakers anni prima, gridarono allo scandalo. Andare ad aggiungere un giocatore come Durant a una squadra di fenomeni avrebbe dissolto qualsiasi equilibrio nella lega. E infatti quella che si formò nell’estate del 2016 e che conquistò due titoli consecutivi, fu probabilmente la squadra più letale di tutti i tempi.

Durant Warriors
Photo Credit: USA TODAY Sports

5 – I 60 dell’ultima di Kobe

Kobe Bryant nella sua ventennale carriera non è stato mai banale o noioso. Non lo era stato da giovane quando appena ventenne aveva messo in discussione le gerarchie in casa Lakers e non lo è stato da meno giovane – perché non si può chiamare Kobe “vecchio” – quando ha deciso di lasciare lo sport che ha amato con una prestazione che è entrata nella leggenda. Siamo alla fine del farewell tour che ha caratterizzato il suo ultimo anno NBA e l’ultima partita della sua carriera si gioca allo Staples Center contro gli Utah Jazz.

Tutti si aspettano una buona partita di Kobe, un addio che lasci i tifosi gialloviola col sorriso. Ma siccome Kobe non è mai stato banale, quello che succede il 13 aprile del 2016 va oltre le aspettative di tutti. Lo sguardo è quello di chi sta giocando una finale NBA, non di un 38enne che si appresta ad appendere le scarpe al chiodo. Il Black Mamba quella notte ne metterà 60. Sì, tirerà 50 volte, ma è Kobe e se lo può permettere, soprattutto dopo quello che ha regalato al gioco. Ecco perché quella prestazione è un diamante incastonato nella memoria non solo dei tifosi dei Lakers ma di qualsiasi appassionato di questo sport.

4 – Dirk e il titolo con i Mavs

In seguito alla creazione del tanto discusso super team di Miami formato dai Big Three, l’anello già sembrava alle dita di Lebron, Wade e Bosh. E se non loro, probabilmente degli altri Big Three, quelli texani, oppure dei Bulls dell’MVP Derrick Rose. I Mavs avevano una squadra di tutto rispetto, ma non avevano Lebron, Rose, Bryant o Durant. Avevano però un tedesco che verrà ricordato come il più grande giocatore europeo ad aver militato in NBA. Ai playoff, dopo aver eliminato Blazers, Lakers e OKC, approdano alle Finals proprio contro quella squadra considerata da tutti come la favorita.

Molti a Miami non lo dicevano però lo pensavano: “Il titolo sarà nostro”. Peccato che il basket è uno degli sport più imprevedibili e le sorprese non sono così rare. Sfruttando la forse eccessiva arroganza degli uomini di Spoelstra, Dallas mette in scena una versione cestistica di Davide contro Golia for the ages. 4-2 e titolo di MVP delle Finali a uno straordinario Dirk Nowitzki che con 26 punti a partita in quella serie aveva letteralmente trascinato la franchigia texana al suo primo storico titolo.

Nowitzki Dallas Mavs 2011
Photo Credit: Tom Fox/Dallas Morning News

3 – The Decision

La decisione che Lebron dovette prendere sul proprio futuro durante la free agency del 2010 acquisì una forza gravitazionale tale da essere trasmessa addirittura in diretta televisiva da ESPN. Non era stata una scelta semplice, ma dopo che per 7 anni non riescono a costruirti attorno una squadra in grado di competere per il titolo e tu sei il giocatore più dominante della lega, le tue ambizioni scavalcano le scelte di cuore. E allora l’uomo nato e cresciuto ad Akron, Ohio, aveva dovuto prenderla la decisione di lasciare la sua terra e abitare nuovi lidi.

In particolare quello di South Beach, andando a trovare Dwayne Wade e Chris Bosh e formando una squadra che sulla carta avrebbe potuto vincere molto di più di quello che ha poi vinto (vedasi momento n°4). Michael Jordan dirà che lui non sarebbe mai andato a giocare con Magic o con Bird, lui voleva batterli. E sulla stessa lunghezza d’onda di His Airness molti criticarono la scelta del Re, che diventò uno dei giocatori più odiati, non solo dai tifosi dei Cavs, che dal canto loro non si fecero troppi scrupoli a bruciare la maglia del “traditore”.

2 – Warriors 73-9

Per 20 anni si era pensato che il record di 72 vittorie e 10 sconfitte dei Chicago Bulls durante la stagione 1995/1996 fosse uno di quei record quasi impossibili da battere. Protagonisti di quell’impresa furono su tutti Phil Jackson e Michael Jordan. Il primo aveva rivoluzionato il gioco con il triangolo, il secondo era semplicemente Dio che giocava a basket (semicit). Quello che successe due decadi dopo aveva dei presupposti simili.

Steve Kerr stava rivoluzionando il gioco aprendo il campo in un modo mai visto e Steph Curry stava demolendo qualsiasi muro virtuale esistente circa il concetto di ciò che era possibile e lecito fare su un campo di basket. E dopo vent’anni, durante stagione 2015/2016, i Golden State Warriors addirittura fecero meglio di quei Bulls. La squadra di MJ si era poi presentata ai playoff con una maglia con scritto “72-10: don’t mean a thing without a ring”, e infatti suggellarono quella fantastica stagione con l’anello. Forse gli Warriors avrebbero dovuto fare la stessa cosa, perché poi accadde ciò di cui parleremo nel prossimo paragrafo.

1 – Rimonta Cavs sul 3-1 e primo titolo in Ohio

Era stata una stagione di record quella degli Warriors, che avevano giocato una pallacanestro specchio perfetto dell’idea di gioco che aveva in mente Steve Kerr. Un sistema perfetto con piccolissimi margini d’errore che si era fortificato rispetto alla stagione precedente, in cui proprio contro i Cavs avevano conquistato il titolo. Arrivati a Gara 4 delle NBA Finals 2016, con gli Warriors avanti 3-1, nella baia si respirava aria di repeat. In Gara 5 Lebron e Irving rovinano la festa dei padroni di casa e mettono insieme 82 punti, in Gara 6 James ne mette altri 41 e porta la serie in parità.

Gara 7 si gioca in una Oracle Arena pregna di una tensione che diventa palpabile negli ultimi due minuti del quarto quarto, quando prima va in scena “The Block“, l’iconica stoppata di James su Iguodala, e poi il tiro decisivo di Irving su Curry a 53 secondi dalla fine. Poco dopo i Cavs vinceranno il loro primo titolo NBA (prima squadra a conquistare l’anello dopo essere andata sotto 3-1), ponendo fine a una maledizione sportiva che affliggeva la città di Cleveland e lo Stato dell’Ohio da 52 anni.

Cavs campioni NBA 2016
Photo Credit: Ezra Shaw/Getty Images