Sanremo 2021 ha acceso una polemica intorno al maschilismo della lingua italiana. Beatrice Venezi, sul palco più importante di Italia, ha espresso la sua opinione ” La posizione ha un nome preciso e nel mio caso è quello di direttore d’orchestra, non di direttrice e così voglio essere chiamata, me ne assumo la responsabilità”. Poche parole che l’hanno fatta finire dritta dritta nell’occhio del ciclone.
Beatrice Venezi, simbolo di un atteggiamento conservatore?
La lingua italiana ha delle regole precise e inconfutabili. Si declina al maschile o al femminile e non prevede il neutro. Se fino a pochi anni fa abbiamo erroneamente usato al maschile anche per ruoli rivestiti da una donna è stato semplicemente perché retaggio di una cultura che impediva alle donne di accedere a ruoli lavorativi riservati agli uomini. Rivendicare una declinazione femminile per lavori svolti da una donna è sintomo di un’ evoluzione culturale. Beatrice Venenzi non sembra, proprio, averne colto il senso.
La sua affermazione è stata aspramente criticata anzitutto da donne con ruoli politici, come Laura Boldrini. Secondo la politica, Beatrice Venenzi, ha dimostrato di avere poca autostima e nascondendo il femminile si nascondono le lotte e gli sforzi fatti. Anche la giornalista Selvaggia Lucarelli le ha riservato considerazioni spigolose. Per la Lucarelli, Beatrice Venenzi, avrebbe dovuto essere fiera di essere una direttrice d’orchestra in quanto, anni fa, come donna avrebbe solo potuto “pulire gli spartiti con un panno caldo”.
“Già quando sono entrata nel sindacato Cgil mi facevo chiamare ‘la segretaria nazionale’ e non ‘il segretario’ – dice Valeria Fedeli – Poi ‘ministra’ e ‘la vice presidente del Senato’. La lingua italiana ci offre termini corretti per non escludere e non imporre. Sulla questione del direttore o direttrice di orchestra, prendo atto che Beatrice Venezi, bravissima e preparatissima, abbia scelto di farsi chiamare ‘direttore’. Avrei preferito il contrario, ma bisogna essere liberi di scegliere, di farci chiamare come ci si sente meglio”
La difesa di Beatrice Venezi
Beatrice Venenzi, in risposta alle critiche che le sono state riservate ha asserito che ridirebbe quanto espresso all’ Ariston e ha poi aggiunto:
“L’ambiente da cui vengo è conservatore. Ci sono le figure del Maestro e del Direttore d’orchestra. La declinazione al femminile non solo non aggiunge niente – non sento la necessità del femminile per sentirmi riconosciuta – ma ci sono dei connotati peculiari: maestra rimanda alla maestra di scuola, un altro lavoro. Se l’obiettivo è avere pari opportunità che senso ha sottolineare una differenza di genere, dividere sempre più così da arrivare a una ulteriore disparità. Io voglio essere una tra i vari direttori d’orchestra. Nei Paesi anglofoni si dice conductor”.
La Venenzi ha poi aggiunto che si potrebbe puntare ad un genere neutro, ma prima ancora è importante che si parli di parità di accesso alle posizioni lavorative, parità di salario, della parità di portare avanti ambito familiare e ambito lavorativo per le donne e per gli uomini allo stesso livello.
Il punto sulla questione
La difesa della Venezi sicuramente mette in luce alcune piaghe della situazione lavorativa italiana. Ad esempio le donne lavorano e studiano il doppio degli uomini e, molto spesso, vengono pagate meno. Il punto, però, è che la parità di genere e quindi anche la parità sul lavoro passa necessariamente per il riconoscimento, anche solo formale, delle presenza di donne sul mercato del lavoro. Una “a” alla fine di una parola non serve, come asserisce la Venenzi solo al sentirsi riconosciuta, è sintomo di una pari dignità da rivendicare con orgoglio. Si tratta di un tassello ineludibile perchè da un accezione puramente formale possa discendere un riconoscimento sostanziale
Enrico Mentana, non a caso un uomo, ha affermato in proposito che la Venezi ha semplicemente rivendicato il diritto di farsi chiamare “Direttore”. Esercizio di un diritto di per sè legittimo ma che fa storcere il naso alle donne che, con forza e determinazione, lottano per essere riconosciute ed essere valutate semplicemente in relazione al loro valore. E’ pur vero che l’importante è la sostanza. Tuttavia il raggiungimento di obiettivi sostanziali passa inevitabilmente per un aspetto formale. Se non sono le donne a rivendicare il loro riconoscimento, chi può farlo in loro vece?
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