Abbiamo già parlato di Blonde, il film di Andrew Dominik tratto dal romanzo omonimo di Joyce Carol Oates su Marilyn Monroe; il lungometraggio targato Netflix, presentato a Venezia, ha ottenuto sia lodi che commenti sprezzanti degli spettatori che lo hanno visionato e che si sono dissociati dai temi trattati.
Blonde: l’accusa di non essere un film femminista
Una delle più grandi ingenuità del nostro tempo è quello di associare qualsiasi film che abbia come protagonista una donna al femminismo. Non c’è nulla di più sbagliato in questa associazione, perché non basta essere donna e raccontare la propria storia (o farla raccontare da altri) per essere femminista. Non possiamo allo stesso modo, dunque, definire Blonde un film femminista, semplicemente perché educare su certi ideali non è lo scopo del film, e prima ancora del romanzo. La sua missione è semplicemente quella di raccontare la storia di un mito, per quanto astratti e fantasiosi possano essere alcuni degli episodi narrati.
Ciò non toglie il malcontento del pubblico: il film è colpevole di mostrare Marilyn Monroe come una vittima costantemente abusata, oggetto di qualsiasi tipo di indicibile violenza fisica e psicologica, e non come un essere umano con una propria dignità. E di questo potremmo effettivamente parlare per ore, in quanto Blonde non concede un singolo respiro di sollievo né alla sua protagonista né al pubblico. Marilyn Monroe è, effettivamente, ritratta come una martire – in nome di non si sa con certezza quale bene superiore, probabilmente il cinema. Ma c’è da dire che la vita della vera Marilyn non è stata tanto migliore rispetto a quella della controparte filmica: abusi di ogni genere fin da bambina, un matrimonio contratto a soli sedici anni per sfuggire alla povertà, un revenge porn ante litteram (le foto pubblicate sul primo numero della rivista Playboy non vennero mai autorizzate da lei, che posò nuda per un calendario soltanto per pagarsi da vivere). E, infine, gli aborti.
Andrew Dominik fa una campagna pro-vita?
Non è cosa nuova che Marilyn Monroe, nella sua vita, abbia abortito diverse volte, naturalmente e non. Il regista ritrae questi momenti nel film in un modo che ha lasciato il pubblico inorridito: è sembrato infatti che volesse portare avanti una campagna pro-vita e condannare la scelta di ricorrere all’aborto.
A peccare di ingenuità qui, effettivamente, è il regista stesso, che taglia più o meno volontariamente dalla storia i momenti in cui Marilyn abortì spontaneamente – e furono davvero tanti – ma calca la mano su un’interruzione volontaria di gravidanza a cui l’attrice si sottopose per non fermare bruscamente la carriera sul nascere. Non contento, a un certo punto ecco che spunta come deus ex machina un feto nel grembo della donna, che gioca sui suoi sensi di colpa per l’averlo abortito anni prima e che si assicura che stavolta vedrà la luce.
Probabilmente, per restituire un ritratto più umano e vicino a noi dell’attrice, ma soprattutto per non cadere nel cattivo gusto, sarebbe stato giusto e dignitoso, nel ricordo della donna stessa, concentrarsi sulla sua infinita voglia di maternità, che provò per qualche anno quando sposò il secondo marito Joe DiMaggio. Il figlio del giocatore di baseball e dell’attrice Dorothy Arnold, Joe DiMaggio Jr., ricorda infatti una Marilyn estremamente a suo agio nel ruolo di “matrigna”: una donna estremamente felice, solare ed entusiasta, che non si perdeva una partita della squadra in cui il bambino giocava e che non gli negava mai un abbraccio o un gesto d’affetto. Fa decisamente un altro effetto conoscere questo lato della storia, vero?
Blonde e la colpa universale di non lasciar riposare Marilyn Monroe
C’è chi ha definito Blonde un film dell’orrore, ed è vero: il film è una spirale verso un dolore sempre più profondo; non c’è funzione catartica né salvifica, ma si assiste a una costante agonia. È stato giusto, dunque, mostrarlo per quasi tre ore di film? È giusto appropriarci a nostra volta dello sguardo voyeuristico che possiede in maniera malata e pericolosa il corpo delle donne, spersonalizzandole e mettendole in vetrina come un taglio di carne pregiato?
Allo stesso modo, viene spontaneo chiedersi se sia giusto considerare il film un biopic, quando è un adattamento di un romanzo e non, appunto, di una biografia – che fu a sua volta estremamente triste e violenta. Conoscere infatti il medium di partenza e soprattutto la vita della celebrità che si ha davanti è estremamente utile per capire il modo giusto con il quale approcciarci al prodotto che si consuma.
Una cosa, tuttavia, è certa: Blonde ha messo per l’ennesima volta in scena il mito di Marilyn Monroe, servendosi del suo corpo come per anni, in vita e in morte, è stato fatto. L’immagine della diva è immortale e tuttora considerata oggetto di culto. Oggetto, sì, e non soggetto, come tremendamente e ardentemente la stessa Marilyn aveva desiderato essere vista per tutti i 36 anni della sua vita. Cosa che non le abbiamo mai concesso. Siamo anche noi colpevoli di aver posseduto la sua immagine anche solo per un momento, e nessuno ci assolverà dal fatto che, se Marilyn non può ancora riposare in pace, è anche un po’ colpa nostra.
Chiara Cozzi
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Ph: RedCapes