All’interno della storia cinematografica vi è un elemento nascosto che comunica più di quanto si possa credere. Un elemento che è stato in realtà dominante per anni. Un elemento che sa attendere e che riesce a dare lo spazio alla potenza intrinseca dello sguardo. Quell’elemento è il silenzio. Il silenzio ha delle capacità comunicative devastanti, trovando il suo spazio tra il non detto e l’indicibile. È molte volte assordante e in The Last of Us questo non rumore fa male. Tanto.
The Last of Us: l’importanza del ritmo
La serie tratta dall’omonimo videogioco è giunta alla sua conclusione con questo nono episodio. La creatura nata dalla mente di Neil Druckmann e affinata per la televisione da Craig Mazin si conclude esattamente come il videogioco. È l’inizio ad essere diverso però. Vediamo quella che è la nascita di Ellie e ci permette di capire quali sono le origini della sua immunità. La valenza simbolica della scena è duplice: da un lato ci mostra come in un mondo del genere possano coesistere bellezza e morte. Vita umana e non vita del cordyceps. Allo stesso tempo, la scelta di far interpretare ad Ashley Johnson, la voce originale di Ellie, sa quasi di passaggio di consegne. Di omaggio a chi ha interpretato e, appunto, dato vita alla Ellie originale. Un omaggio gradito e bellissimo. L’intera scena, come tutto l’episodio, è girata e fotografata magistralmente. La luce fioca delle candele, le luci che arrivano dal buio del bosco e la solitudine della mamma di Ellie sono tutti elementi che creano un momento inedito ma non per questo meno straziante.
L’episodio apre il secondo atto rallentando il ritmo e restituendoci dei momenti di calma e spensieratezza tra Ellie e Joel. Il loro rapporto è ormai completo e il silenzio tra i due è l’esatto momento in cui capiscono che ormai sono praticamente padre e figlia. E se nell’ottavo e nel settimo episodio a brillare è stata Bella Ramsey, l’episodio finale viene dato tutto in mano a Pedro Pascal. La sequenza della sparatoria è tutta affidata ai silenzi, ai volti e alle musiche. Joel è spietato e, nonostante una leggera sensazione un po’ troppo da Deus Ex Machina in quei corridoi, capiamo tutto dal suo sguardo. Ellie è l’unica cosa che lo tiene in vita. L’unica cosa che, come gli disse Frank nel terzo episodio, vale la pena proteggere. Neanche l’idea di poter salvare l’umanità ferma il dolore di uomo che ha perso tutto e che si vede tolto da davanti quello che gli è rimasto.
Montaggio che si fa musica
È però arrivato il momento di parlare di quel finale, uno dei più iconici nel panorama videoludico. Com’è la resa nella serie? Riesce a restituire la stessa potenza del videogioco? A nostro parere riesce ad andarci vicino. Ed è un plauso enorme anche solo questo. È ovvio che dopo ore e ore di gioco l’affetto che abbiamo nei confronti dei nostri personaggi sia maggiore. Passiamo giornate intere con loro. Ci sentiamo parte del loro cammino che noi stessi gli permettiamo di compiere. E riuscire anche solo ad andare vicino ad una grandezza simile è sintomo di aver svolto un lavoro eccezionale.
Il potere del silenzio si mostra con tutto sé stesso proprio nel finale. E tutto grazie quell’arte che permette al silenzio di parlare: il montaggio. Non è necessario scrivere grandi monologhi finali per chiudere una serie: bastano un campo ed un controcampo, due sguardi e una sola parola per creare un momento unico. E proprio come per la colonna sonora capolavoro di Gustavo Santaolalla, il montaggio si fa musica. Va veloce prima e rallenta quasi fino a fermarsi sul volto di Ellie, primo violino di una sinfonia magnifica intitolata The Last of Us.
Alessandro Libianchi
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