Per il Dantedì di oggi, la redazione di Metropolitan Magazine si occuperà del XIII Canto. Il 2° girone del VII cerchio, che affronta il canto in esame, ospita i violenti contro se stessi: suicidi e scialacquatori.
Il 2° girone del VII cerchio: la Selva buia e le Arpie
Era il 9 aprile 1300, poco prima dell’alba. Dante e Virgilio, trasportati dal centauro Nesso al di là del Flegentonte, si addentrano in una selva folta e più selvaggia della macchia maremma. Non ci sono frutti: al loro posto crescono spine velenose e i rami in cui queste si insinuano sono contorti. Tra le piante i due poeti sentono terribili lamenti: sono le Arpie. Si tratta di cagne infernali, dotate di grandi ali, visi umani e zampe artigliate. Questi esseri terrificanti sono posti a custodia del girone.
Virgilio spiega a Dante che si trova nel secondo girone del VII cerchio, dove la selva si estende sino al sabbione infuocato del girone seguente. Lo invita poi a guardare bene ciò che si trova nel bosco, perché vedrà cose incredibili a sentirne parlare.
Quivi le brutte Arpie lor nidi fanno,
che cacciar de le Strofade i Troiani
con tristo annunzio di futuro danno…
I peccatori del XIII Canto: i violenti contro se stessi
Il VII Cerchio dell’Inferno, come visto per lo scorso Dantedì, è dedicato ai violenti. Questi sono collocati in tre gironi diversi sulla base del peccato da loro commesso. Se nel 1° si trovano i violenti contro il prossimo e nel 3° i violenti contro Dio, Natura e Arte, il 2° girone è abitato dai violenti contro se stessi, nella persona e nelle cose. I suicidi, dunque, sono puniti attraverso la trasformazione dei loro corpi in piante, pur mantenendo intelletto e parola. Le Arpie si cibano dei loro cespugli provocando dolore. La pena del contrappasso consiste in questo caso nel condannare i peccatori a “rinascere” continuamente in forma di piante, cioè in una natura ibrida, degradata. Il groviglio della ramificazione, invece, allude alla natura contorta dell’anima che, nel momento del suicidio, perde la razionalità.
Il personaggio centrale del XIII Canto: Pier della Vigna
L’incontro con Pier della Vigna assume un’importanza davvero significativa nella narrazione del Canto. A questo personaggio sono riservati, infatti, 78 versi su 151. In seguito a un primo momento in cui i due viaggiatori non riescono a comprendere da chi provengano i lamenti tra i cespugli, Piero si presenta come colui che fu intimo collaboratore di Federico II di Svevia, tanto fedele da diventarne il solo depositario di tutti i segreti. Aveva svolto il suo incarico con lealtà e dedizione, al punto da perderne la serenità e la vita: infatti il suo zelo aveva acceso contro di lui l’invidia dei cortigiani, i quali convinsero il sovrano ad accusarlo di tradimento. In seguito Pier della Vigna si era tolto la vita, credendo in tal modo di sfuggire allo sdegno del sovrano e finendo per passare dalla ragione al torto.
L’anima conclude il racconto giurando sulle radici della pianta in cui è rinchiuso di essere innocente dell’accusa rivoltagli a suo tempo, pregando Dante di confortare la sua memoria se mai ritornerà nel mondo. Si tratta, dunque, di un atto colpevole, il suicidio appunto, a cui però il personaggio fu “costretto” a dover ricorrere perché accusato di azioni ingiuste nei confronti di Federico II. Piero è infatti il secondo dannato, dopo Francesca da Rimini, che nel rievocare il proprio peccato ne esibisce cause e giustificazioni. Tuttavia Pier della Vigna è colpevole di un’errata interpretazione della vita, tutta orientata con compiaciuto orgoglio al prestigio e alla fama, varianti della superbia.
Martina Pipitone