Il canto XXIV dell’inferno è caratterizzato da uno stile particolarmente ricercato. E per le similitudini con le quali Dante si rifà ai poeti latini, e per la descrizione della metamorfosi dei dannati. Dante e Virgilio incontrano qui i ladri fraudolenti, ai quali, per contrappasso, dei serpenti, tengono legate le mani; queste ultime infatti, erano in vita, veloci a rubare ad altri.

Turbamento di Dante e ascesa alla VII Bolgia

Ritroviamo qui i due poeti che a grandi passi lasciano la VI Bolgia. Dante è stupito nel vedere il suo maestro così corrucciato per quelle parole di Catalano che gli hanno svelato l’inganno di Malacoda. Tuttavia si rasserena quando Virgilio, giunti alla rovina del ponte roccioso, si rivolge a lui con la stessa benevolenza dimostrata quando stavano ai piedi del colle. Da qui la prima metafora, dove Dante descrive il suo sollievo paragonandolo a quello del contadino che alzatosi al mattino, scambia la brina per neve, e si dispera fino a quando non si accorge che la brina si è sciolta, e sollevato esce per pascolare le pecore.

Virgilio esorta il discepolo a proseguire, aiutandolo nella salita e dandogli indicazioni per la scalata. La salita, infatti, è impervia, ma alla fine i due poeti riescono a raggiungere la sommità dell’argine. Qui Dante affaticato anche dal suo corpo vivo, quasi senza respiro si siede per riprendere fiato. È qui che Virgilio duramente lo rimprovera intimandogli di alzarsi e proseguire, poiché ben altre fatiche li aspettano prima di giungere in vetta; bisogna vincere con l’animo la debolezza del corpo poiche’ non è stando seduto o sotto le coperte che si raggiunge la fama; e senza la fama la vita di un uomo è destinata a passare come fumo nell’aria o schiuma nell’acqua.

I ladri

Canto XXIV- immagine web
Canto XXIV- immagine web

Dante e Virgilio prendono il ponte che sovrasta la VII Bolgia, ma neanche dal punto più alto si riesce a sentire la voce che viene dal fondo. Dante parla per cercare di nascondere la stanchezza, e invita Virgilio a raggiungere l’argine che separa la bolgia dalla successiva. Qui Dante assiste a uno spettacolo così spaventoso da turbarlo anche al ricordo. La fossa infatti è piena di orribili serpenti, tutti diversi fra loro. Il deserto di Libia, né quello di Etiopia o Arabia, produce rettili così orrendi. In questo ammasso di serpenti corrono i dannati nudi e terrorizzati, con le mani legate dietro la schiena da serpi che insinuano il capo e la coda attorno ai fianchi, annodandosi davanti al ventre.

Vanni Fucci

Vanni Fulci, canto XXIV-immagine web
Vanni Fucci, canto XXIV-immagine web

È cosi che Dante e Virgilio assistono ad una scena raccapricciante. Uno dei dannati viene morso sulla nuca da un serpente, prende fuoco e si trasforma in cenere, cadendo per terra poi, si raccoglie e si tramuta nuovamente nella stessa figura di prima. Mentre il dannato si rialza sgomento, Dante paragona tutto questo al modo che ha l’Araba Fenice di morire e rinascere ogni cinquecento anni. Il peccatore è Vanni Fucci, soprannominato “bestia”, il quale, accortosi della presenza di Dante, arrossisce dalla rabbia e dalla vergogna per essere stato riconosciuto in quel luogo di pena. Nonostante Dante conosca la sua fama, lo costringe a confessare il suo peccato. Egli afferma di aver rubato gli arredi del Duomo di Pistoia e di aver lasciato che per quel furto fosse condannato un innocente.

L’ira del dannato

Vanni Fucci, assassino ancor prima che ladro, dannato volgare e bestemmiatore, iroso come Dante non ne aveva ancora visti e descritti, per vendicarsi dell’umiliazione subita, gli predice che presto i Bianchi di Firenze saranno definitivamente cacciati dalla città ad opera dei Neri, così come accadrà ai Bianchi di Pistoia. Vanni, inoltre, rivela a Dante, senza ritegno, di avergli detto questo per potergli procurare dolore, affinchè una volta tornato sulla terra non goda di averlo visto tra i dannati.

Cristina Di Maggio

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