Capelli bianchi su IG? Grazie, Leandra, ma l’attivismo è altro

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Di Redazione Metropolitan

Leandra Medine Cohen non sembra una newyorkese come tante neanche ad impegnarcisi, ma i punti per l’impegno vanno assegnati. La fondatrice di Man Repeller, il sito di moda che ha chiuso i battenti l’anno scorso in seguito all’inevitabile controversia per il razzismo, ha infatti sempre investito in una particolare immagine di sé. Bilanciata perfettamente tra l’eccentrico e l’elegante, tra il relatable e l’aspirational. Tra il “sono una donna come tante, come tutte voi” e il “una completa sconosciuta gestisce una fanpage su instagram sui look delle mie figlie.”

Leandra siede, al momento, su oltre un milione di followers accumulati sulla piattaforma, senza dubbio grazie ad un costante impegno, e grazie all’esperienza di Man Repeller. Il sito, commemorato come un luogo “che celebrava l’espressione di sé attraverso la moda”, sicuramente ha ispirato tantə nei loro percorsi di autoscoperta. Con un sèguito del genere, però, ogni didascalia diventa una proclamazione reale, ogni foto una conferenza stampa, ogni selfie #nofilter un momento di attivismo.

Leandra Medine Cohen, fashion icon che ogni tanto finge di essere una comune mortale mostrandosi con la ricrescita. Photo credits: @leandramcohen su Instagram

Leandra Medine Cohen non è una di noi

Le riviste di moda sono sempre state un’arma a doppio taglio, per le donne. Mostrare le versioni idealizzate, photoshoppate, assistite da makeup artists e stilisti ed editors, di modelle già bellissime, vuol dire inevitabilmente sollecitare il confronto con il lettore. Che probabilmente è in pigiama. Ben venga quindi un’espressione sui social che sia meno lucidata. Sacrosanto, persino, che la ricrescita grigia non debba essere coperta a tutti i costi. Soprattutto in una pandemia – la scusa perfetta per l’essersi “lasciate andare”. Ma il problema rimane, e anzi, si inasprisce: se possiamo accettare con un minimo di serenità la differenza tra quello che vediamo allo specchio e la copertina di Vogue, è molto più complicato farlo con instagram.

Leandra Medine Cohen, e tuttə lə appartenenti alla categoria di “influencer moda e stile di vita”, sanno che parte dell’appeal dei social media è l’apparenza di normalità, e quindi questo ci vendono. Non sarà di sicuro (soltanto) un cinico tentativo di alimentare la relazione parasociale che ci spinge a leggere le loro newsletter e a tollerare i loro post sponsorizzati. Post che, tra l’altro, possono far guadagnare fino alla decina di migliaia di dollari l’uno, quando si sta sul milione di followers. Però aiuta. E mentre aiuta loro, spinge noialtri esseri umani a confondere, spesso e volentieri, il “candid” con il prodotto di una sessione di fotografia che, per quanto nofilter, non è sicuramente spontanea o meno intenzionalmente curata. E tutto va ad alimentare la tirannia della bellezza.

“Sii bella per te stessa” ed altre bugie

Lungi da me il parlar troppo bene dei tempi andati, ma c’era una volta in cui le riflessioni sul capitale della bellezza erano molto più oneste. “Chi bella vuole apparire, un po’ deve soffrire” è sicuramente una massima orribile, e tuttə ci auguriamo che non venga mai più pronunciata davanti a una bambina recalcitrante che si rifiuta di essere pettinata. Ma almeno è sincera: la bellezza è un ideale da raggiungere tramite il sacrificio, perché apre le porte a tutta una serie di vantaggi. Dall’essere in cima alla gerarchia sociale – con tutto ciò che ne deriva, all’essere percepitə come più affidabili, più gentili, più amichevoli – come dice la scienza.

Ed era questo contro cui si scagliava la body positivity, all’inizio. Questo modello di bellezza, oppressivo per definizione, bisogna demolirlo, ma non perché ci fa sentire male con noi stesse (anche se si tratta di una verità spiacevole). Va distrutto perché crea una gerarchia tra “desiderabili” e “indesiderabili”. Ciò porta conseguenze disastrose, pratiche e pragmatiche, per tuttə coloro che dovranno patire molto di più che una semplice skincare routine per guadagnarsi la bellezza. Per esempio le persone trans, o disabili, o di colore, o grasse, sulla cui esclusione il costrutto di bellezza è stato costruito e si regge tuttora. Del resto, le radici storiche della nostra ossessione con la magrezza si ritrovano nel razzismo contro i neri, come ci spiega Sabrina Strings in Fearing The Black Body.

“Lifestyle instagram”, o il cimitero degli impulsi rivoluzionari

Leandra Medine, e il culto moderno della bellezza come espressione di sé, condita da una body positivity all’acqua di rose, sono la tomba del movimento originario. Se l’espressione di sé è accettabile solo quando curata e raffinata, non importa quanto ci si dica di voler essere “repellente agli uomini”. La struttura patriarcale è indipendente dalla volontà di ognuno di noi. Infatti, si regge sulle insicurezze che ci spingono a finanziare le industrie della moda, del makeup, delle pillole anti appetito. Ben venga l’espressione di sé, ma che ben venga in tutte le sue forme, anche quelle brutte, sgraziate, sciatte. Stiamo attraversando una pandemia, per carità. Impariamo a trattare chiunque cerchi di venderci ideali di bellezza (per quanto fintamente casual) come un nemico di classe, per favore.

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