Andrea, uno studente trans di Roma, chiede l’accesso alla carriera alias. Chiede un’alternativa, e quindi un’identità, a un nome che non gli appartiene più ma che è costretto a sentire quotidianamente. Gli viene negato il diritto di riconoscersi, ma soprattutto gli viene negato il diritto a essere sereno nella propria scuola, classe, comunità. 

Quello che accade ogni volta che si usa il deadname lo sanno solo le persone transgender. Andrea ha provato a descrivere tale sentimento con un’immagine. Ha detto che è “come aghi nel corpo”. Procura disagio e nausea. 

Caso Andrea: un nome per un’identità

Ad Andrea, studente di un liceo di Roma, viene negata la “carriera alias”. Nella regione Lazio esiste un documento, redatto dal Servizio per l’adeguamento tra identità fisica e identità psichica dell’ospedale San Camillo di Roma, che è indirizzato a insegnanti e operatori scolastici. Lo scopo è quello di far sentire al sicuro gli studenti transgender. L’adesione o meno alle linee guida è volontaria e così nel liceo di Andrea non esiste ancora una direzione e gli studenti transgender come lui non possono scegliere una carriera alias e non possono avere bagni neutri.

Andrea non ha fatto tutte queste storie (come è stato scritto e detto) “solo” per un nome. Dietro alla questione deadname di una persona transgender c’è molto di più, come la negazione della propria identità. Non è solo un nome, è una violenza che continua a perpetrarsi ogni giorno, a ogni ora in classe. Quello che stupisce della storia di Andrea, che sul registro, sui compiti e per i professori rimane un’altra persona, non è solo la mancanza di empatia; la base di questo disagio, causato dal personale scolastico che dovrebbe proteggere e insegnare alle giovani menti, è causato dall’assenza di un sistema educativo aggiornato e obbligato a farlo. 

Cosa ci insegna il caso di Andrea sull’educazione sessuale nelle scuole?

Possiamo inserire anche questo aspetto nella definizione di educazione sessuale. Perché no, non si insegna a fare sesso, non si insegna ad “affittare il proprio utero” o a “cambiare sesso a piacimento”, per citare le strampalate dichiarazioni di Pro Vita & Famiglia e certi partiti politici. 

L’educazione sessuale serve per educare al rispetto altrui. Lo scrive l’UNESCO, che definisce l’educazione sessuale come:

“L’insegnamento e l’apprendimento degli aspetti cognitivi, affettivi, fisici e sociali della sessualità. Mira a dotare i bambini e i ragazzi di conoscenze, competenze, atteggiamenti e valori che li metteranno in grado di realizzarsi, nel rispetto della loro salute, del loro benessere e della loro dignità, di sviluppare relazioni sociali e sessuali basate sul rispetto, di capire come le loro scelte influenzano il loro benessere e quello altrui, e di comprendere i loro diritti e tutelarli per tutta la vita”.

Educazione sessuale nelle scuole – Photo Credits: web

Educazione sessuale e “teoria del gender” nelle scuole: sarebbe così sbagliato?

Il rispetto per la diversità deve essere insegnata prima a professor3 e presidi, al personale scolastico, a chi lavora negli uffici. Si sente dire e si scrive che l’educazione sessuale è essenziale per i giovani, ma forse servirebbe anche a chi con i giovani ha a che fare. Pensare il contrario o, addirittura, credere che la sessualità debba rientrare nell’ambito dell’educazione famigliare, è un danno incalcolabile. Sarebbe, in parole semplici, il perpetrarsi di un modello che, a guardarsi intorno oggi, non pare aver funzionato così tanto.

Ma cosa insegna l’educazione sessuale e sentimentale nelle scuole? Insegna che essere una persona transgender non vuol dire essere una persona a metà o sbagliata. Sicuramente non una traditrice o un invasore delle genere femminile. L’educazione sessuale è, di fatto, il primo passo per evitare la discriminazione e il bullismo omolesbobitransfobico e i primi che ne hanno bisogno sono i docenti stessi.

Se il Ddl Zan serviva per mandare un segnale, l’urgenza di un cambiamento parte dalle scuole. La scuola è il luogo dove, oltre l’occhio genitoriale, avvengono gli scambi tra pari, tra coetanei, dove si scoprono i significati delle parole e dei gesti. Ma anche di insulti, bullismo e violenze, dove avvengono le discriminazioni per la propria identità, per il proprio corpo, per l’orientamento, l’etnia etc.
La scuola non può essere il luogo nel quale questi atteggiamenti vengono perpetuati. Il primo passo da fare è insegnare il rispetto per gli altri al personale scolastico e agli studenti, ma la speranza che questo avvenga è bassa. Per questo i giovani stanno occupando i loro spazi. La scuola appartiene a loro tanto quanto gli appartiene il proprio corpo. 

Educazione sessuale: strada verso l’ipersessualizzazione?

Dai 9 anni alle bambine può venire il ciclo mestruale e i bambini possono iniziare a eiaculare. I bambini si toccano, le bambine si toccano, si gioca al “dottore”, ci si fa il solletico toccandosi le parte basse. Negare il corpo è negare il contatto e l’esperienza che questo genera. Non è sessuale nel senso sporco che gli adulti continuano a volergli dare. L’ipersessualizzaizone è un fenomeno che i bambini e le bambine subiscono da parte degli adulti, non solo loro ad attuarla. La differenza è ben chiara: l’esplorazione di sé avviene fin dalla più tenera età e in maniera del tutto naturale. L’educazione sessuale non insegna la prima (l’ipersessualizzazione) ma la seconda, ovvero l’approccio naturale al proprio corpo, qualsiasi esso sia e il rispetto per quello altrui; insegna il consenso, la salute del corpo e delle relazioni.

Chi ci pensa ai bambini quindi? Non quei genitori che, spaventati (poiché a loro volta oppressi) rimproverano i figli per essersi procurati “piacere” in maniera innocente. Non la scuola, che a oggi evita di insegnare ai giovani l’affettività, le differenze dei corpi maschili e femminili, il concetto di diversità come valore contro la discriminazione e molto altro. 
E allora chi? Bella domanda. I bambini e le bambine si crescono da sol3, cercando le risposte in rete, dove non esistono filtri o un percorso ragionato. “Ai miei tempi non ci facevano questi problemi e siamo cresciuti sani” dicono i più nostalgici. Ah sì? Pensiamoci un attimo.

L’omosessualità in Italia ha smesso di essere illegale il 1° gennaio 1980; il matrimonio riparatore venne abolito il 5 settembre 1981 e la transessualità è stata cancellata dalla lista delle malattie mentali solo nel 2018. Questi sono esempi di come si viveva prima di un passo avanti. Se sono i giovani a chiederlo, forse è arrivato il momento di accettare il cambiamento e fare quell’ulteriore passo in avanti. Poco importa se professor3 o presidi sono pront3, dall’altra parte c’è la salute fisica e mentale delle nuove generazioni da proteggere. Chi ci pensa ai bambini?!

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Articolo di Giorgia Bonamoneta.