Cesare Pavese, è stato uno scrittore, poeta, traduttore e critico letterario italiano. 70 anni dopo la morte di uno dei più grandi esponenti della letteratura italiana di casa Einaudi.
Cesare Pavese, verrà la morte e avrà i suoi occhi
Nato il 9 settembre 1908 a Santo Stefano Belbo, crebbe in una famiglia agiata che viveva nelle Langhe. Dopo gli studi classici, a Torino, si avvicinò alle letture di Gabriele D’Annunzio, Vittorio Alfieri, e, durante gli anni universitari, si appassionò alla letteratura americana, soprattutto Walt Whitman, ma anche Hemingway.
Tra gli intellettuali del tempo, strinse poi amicizia con Leone Ginzburg, Norberto Bobbio, Massimo Mila e Giulio Einaudi. Inizia da qui la collaborazione con la casa editrice, nata da poco, Einaudi. Con produzioni letterarie, traduzioni e tanto altro.
Tra romanzi, racconti, poesie, diari e saggi, Pavese è ricordato, in particolare per La luna e i falò, La casa in collina,Tra donne sole , La bella estate (per cui ricevette il Premio Strega), Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, Dialoghi con Leucò, Lavorare stanca, Il mestiere di vivere.
Dieci giorni prima di morire scrisse sul suo diario:
Questo il consuntivo dell’anno non finito, che non finirò.
… inoltre il 18 agosto aveva chiuso il diario, pubblicato postumo nel 1952 con il titolo Il mestiere di vivere, scrivendo:
La cosa più segretamente temuta accade sempre… Sembrava facile, a pensarci. Eppure donnette l’hanno fatto. Ci vuole umiltà non orgoglio. Tutto questo fa schifo. Non parole. Un gesto. Non scriverò più.
Cesare Pavese il 27 agosto 1950 venne trovato morto nell’Hotel Roma di Torino: aveva ingerito oltre dieci bustine di sonnifero.
Nella stanza, un solo messaggio. Sulla copertina di Dialoghi con Leucò: “Perdono a tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi.”
Ma per quale motivo? Le ipotesi si moltiplicavano: politica, psiche, letteratura. Ma l’immagine che il pubblico e la stampa hanno preferito dargli è quella del giovane Werther. Il suicidio d’amore di un uomo fragile e, ancora, solitario.
E, forse, non esiste un solo motivo, una causa della morte di Cesare Pavese, ma ne esistono milioni sommati in una notte afosa in cui nessun amico era presente a Torino.
Nell’amore, e anche nello scrivere, si buttava con tale stato d’animo di febbre e di calcolo, da non saperne mai ridere, e da non essere mai per intero se stesso…
Scrive di lui Natalia Ginzburg, in Lessico famigliare. Dunque il motivo della sua morte, questa morte che ci accompagna dalla mattina alla sera, viene ricondotto all’infelicità affettiva dovuta a tre donne (non sole, in questo caso): T. (Tina Pizzardo, la donna dalla voce rauca), F. (Fernanda Pivano, la studentessa di Lettere), B. (Bianca Garufi).
Le cita insieme ne Il mestiere di vivere in data 7 dicembre 1945: “È già due volte in questi giorni che metti accanto T, F, B. C’è qui un riflesso del ritorno mitico. Quel che è stato, sarà.”
Nemmeno il Premio Strega, vinto pochi mesi prima, nel giugno 1950, per La bella estate riuscì a distrarlo da quella terribile tristezza.
In conclusione, sono tante le tracce che lo scrittore ha lasciato dietro di sé, ma non è mai stato preso sul serio. Un uomo solitario, che ricercava la solitudine e non aspettava altro che condividerla con l’amore, e la cui solitudine fu fatale.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, ma non sapremo mai che occhi ha avuto.
Serena Votano