Venerdì il Consiglio dei ministri ha approvato un disegno di legge di riforma costituzionale che ha l’obiettivo di introdurre il cosiddetto “premierato”, cioè una proposta di legge che intende modificare la Costituzione soprattutto per rafforzare i poteri del presidente del Consiglio e per introdurre la sua “elezione diretta”. La Costituzione italiana prevede che alle elezioni politiche i cittadini eleggano i membri del parlamento, che poi a loro volta danno il proprio sostegno a un governo e quindi al presidente del Consiglio. Con la nuova riforma invece sarebbero i cittadini a scegliere direttamente il presidente del Consiglio con il loro voto alle elezioni.
Il disegno di legge presentato dal governo è composto da cinque articoli: quattro indicano le effettive modifiche al testo della Costituzione, mentre il quinto contiene le cosiddette “norme transitorie”, quelle che servono a rendere più graduale il passaggio dalle leggi precedenti a quelle successive. Entrerebbe in vigore a partire dalla prossima legislatura, cioè dopo le prossime elezioni politiche.
Il primo articolo elimina la nomina dei senatori a vita: attualmente è prevista dall’articolo 59 della Costituzione, in base al quale il presidente della Repubblica può nominare senatori a vita fino a cinque «cittadini che hanno illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario». I partiti di destra sono da molti anni contrari ai senatori a vita, il cui peso nelle votazioni del Senato è peraltro aumentato da quando è stato ridotto il numero dei senatori con il referendum del 2020, da 315 a 200. Giorgia Meloni ha chiarito che questa modifica non riguarderebbe gli attuali senatori a vita, che potranno quindi arrivare fino alla fine del proprio mandato (cioè mantenere la carica fino alla loro morte). La Costituzione prevede inoltre che tutti gli ex presidenti della Repubblica diventino automaticamente senatori a vita: questo aspetto non verrebbe modificato dalla riforma.
Il secondo articolo elimina la facoltà del presidente della Repubblica di sciogliere una sola delle due camere. È una possibilità contenuta nell’articolo 88 della Costituzione, ma non è mai stata esercitata da alcun capo dello Stato: nella storia repubblicana Camera e Senato sono sempre state sciolte insieme.
Il terzo e il quarto articolo del disegno di legge sono invece quelli che contengono le modifiche più sostanziali e su cui si fonda la riforma. Modificano l’articolo 92 e l’articolo 94 della Costituzione e introducono la figura del presidente del Consiglio “eletto”, «a suffragio universale e diretto per la durata di cinque anni». Sarebbe una novità molto grossa.
In base alla Costituzione italiana le elezioni politiche sono finalizzate al rinnovo del parlamento: sulla base degli equilibri politici emersi dal voto, e alle sue valutazioni personali, il presidente della Repubblica ha poi il compito di individuare il possibile presidente del Consiglio. Dev’essere una persona in grado di ricevere il sostegno di una maggioranza parlamentare solida, per il suo governo e per il programma che intende realizzare.
Se la riforma voluta dal governo di Meloni entrasse in vigore, tutto questo cambierebbe in modo molto netto. Secondo il testo approvato in Consiglio dei ministri, il presidente della Repubblica non dovrebbe più nominare il presidente del Consiglio, che verrebbe invece eletto direttamente dai cittadini. I cittadini voterebbero in un’unica scheda elettorale sia per l’elezione del presidente del Consiglio che per il rinnovo delle Camere. La legge elettorale che regolerebbe elezioni di questo genere dovrà eventualmente essere elaborata in seguito, ma la proposta del governo anticipa già che dovrebbe garantire «il 55 per cento dei seggi nelle camere alle liste e ai candidati collegati al presidente del Consiglio dei ministri». Le forze politiche uscite vincenti dalle elezioni avrebbero insomma in ogni caso almeno il 55 per cento dei seggi in parlamento, in modo da garantire una maggioranza abbastanza ampia al presidente del Consiglio eletto. Significherebbe però introdurre un consistente premio di maggioranza, cioè un bonus per chi vince le elezioni: una possibilità che in passato è già stata fortemente criticata dalla Corte Costituzionale.
La riforma ideale di Fratelli d’Italia, presentata in campagna elettorale, era in realtà piuttosto diversa. Giorgia Meloni si è infatti sempre detta favorevole al Presidenzialismo – ovvero all’elezione diretta del Presidente della Repubblica. La presidente del Consiglio ha però deciso di virare sul “premierato”, per sancire un terreno comune con i partner di coalizione e tentare di trovare qualche sponda nei partiti di opposizione. Per adesso, però, Pd, M5S, Azione, Avs e Più Europa, in difesa della “democrazia rappresentativa”, hanno seccamente bocciato all’unisono la proposta. L’unico ad averla accolta con entusiasmo è stato Matteo Renzi, che da sempre appoggia l’idea dell’elezione diretta del presidente del Consiglio.
Ad ogni modo, l’iter che il provvedimento dovrà seguire sarà lungo e articolato. Secondo quanto prescritto dall’articolo 138 della Carta, infatti, per riformare la Costituzione sono necessarie due deliberazioni per ciascuna camera, a distanza di non meno di tre mesi l’una dall’altra. Per approvare definitivamente il testo, in occasione della seconda deliberazione, le camere devono approvare con il sì di almeno i 2/3 dei membri. Significa che a quelli dei parlamentari della maggioranza si dovrebbero aggiungere necessariamente almeno 21 voti tra le fila delle opposizioni al Senato e ben 63 alla Camera: una missione molto difficile. Esiste anche una seconda strada possibile: una riforma costituzionale può essere approvata anche con maggioranza semplice, ma in questo secondo caso può essere sottoposto a referendum per diventare definitiva. L’ultimo a provarci, sette anni fa, fu proprio Matteo Renzi: gli andò molto male, perché i cittadini bocciarono il disegno di modifica al quale aveva deciso di legare il suo destino politico