Chi erano gli ABBA e perché si sono sciolti

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Di Alessia Spensierato

È il 1971 quando Björn Ulvaeus e sua moglie, la bionda Agnetha Fӓltskog, formano il gruppo assieme a Benny Andersson e alla sua ragazza, la norvegese Anni-Frid Lyngstad, concependolo però solo come un progetto momentaneo, essendo tutti impegnati in relative carriere soliste. I proto-ABBA iniziano quindi a registrare alcuni pezzi in lingua svedese sotto l’egida del loro fedele manager Stig Anderson (futuro co-autore di diversi brani) e a raggiungere immediatamente le classifiche di vendita in madrepatria. I brani in questione vengono però accreditati solo a nome Björn & Benny (che già collaboravano da tempo) ed è a partire dal 1972, con la pubblicazione del loro primo singolo in lingua inglese, la marcetta a quattro voci intrisa di buoni sentimenti “People Need Love”, che anche le due ragazze vedranno i loro nomi comparire nelle copertine del gruppo.

Il progetto tenterà il lancio su grande scala nei primi mesi del 1973 con la pubblicazione del loro primo album Ring Ring, firmato a nome Björn & Benny, Agnetha & Frida, un disco che mette in mostra la bravura e le potenzialità dei due compositori (e cantanti, soprattutto nei primi album) e delle due vocalist (più dotata vocalmente Agnetha, più animale da palcoscenico Frida), ma che seppur piacevole denota ancora la mancanza di una personalità ben definita e suona spesso acerbo e ingenuo.
I “non ancora ABBA” che si ascoltano tra i solchi del loro primo long-playing sono infatti un gruppo, uno dei tanti, innamorato del sogno americano e del pop-rock più solare e romantico che aveva caratterizzato, oltreoceano, il decennio precedente. Si passano così in rassegna omaggi ai Turtles (la riuscita “She’s My Kind Of Girl”), ai Carpenters (le delicate “Another Town, Another Train” e “I’m Just A Girl”), alla scena di San Francisco (“Rock’n’Roll Band”, “I Saw It In The Mirror”) e alla tradizione più sudista (“Me And Bobby And Bobby’s Brother” e soprattutto la trascinante “He Is Your Brother”, che spicca su tutto il resto). Persino la Fältskog si cimenta nella scrittura, per la prima e ultima volta col gruppo, con “Disillusion”, tronfia ballad che declama il suo amore tanto per Barbra Streisand quanto per George Harrison.
Di ciò che diventeranno gli ABBA negli anni a venire si riscontra traccia solo in una manciata di brani, una pasticciata e zoppicante “Love Isn’t Easy (But It Sure Is Hard Enough)” e nella zuccherosa vacuità (a partire dal titolo) di “Nina, Pretty Ballerina”. Solo un brano sembra avere le potenzialità per lasciare davvero il segno e trasformarli in qualcosa in più di un progetto nato per gioco, in quella macchina divora-classifiche che dominerà tutti gli anni 70. La title track è infatti talmente orecchiabile e stupida al punto giusto per far presa su un pubblico piuttosto vasto.

I quattro vorrebbero utilizzare “Ring Ring” per rappresentare la Svezia all’edizione 1973 dell’Eurofestival ma non arrivano oltre il terzo posto della selezione nazionale. Poco importa, nel giro di poche settimane il pezzo riscuoterà interesse persino oltre i confini scandinavi e trainerà l’album a vendite di tutto rispetto nell’Europa centrale. Un successo inaspettato che porterà i quattro alla decisione di continuare a lavorare insieme in pianta stabile e di cambiare il loro nome nella più semplice ed efficace sigla ABBA (acronimo per Agnetha, Björn, Benny, Anni-Frid). E di conseguenza si fa strada anche la voglia di conquistare i due mercati più importanti, quello inglese e quello statunitense (Ring Ring verrà pubblicato in Uk e negli Usa, e finalmente a nome ABBA, solo negli anni 90).

Dopo un tour trionfale che li porterà in giro per l’Europa e l’Australia (dove verranno accolti da folle oceaniche in visibilio) e le cui performance verranno utilizzate come ossatura per il curioso e inutile lungometraggio divistico “ABBA: The Movie”, sarà subito la volta di un nuovo disco, intitolato semplicemente ABBA: The Album, in parte colonna sonora del quasi omonimo film. Anziché approfondire il discorso disco-music e probabilmente affascinati dall’ottimo riscontro di critica e vendite ottenuto da “Rumours” dei Fleetwood Mac, Ulvaeus e Andersson decidono di spostare nuovamente le coordinate della loro musica e di cimentarsi anche loro con sonorità rock più adulte e robuste. L’isteria collettiva attorno al loro nome e la sicurezza di poter facilmente bissare i fasti dell’album precedente permettono loro libertà di scelta e di provare qualche azzardo, come la pubblicazione della felpata “The Name Of The Game” per trainare il nuovo disco. Un singolo rischioso perché, pur potendo far leva sull’interpretazione sentita di Agnetha e Frida e la pregevole fattura degli arrangiamenti, con tanto di fiati beatlesiani nel bel ritornello, il pezzo appare subito meno esplosivo e troppo elaborato melodicamente per ripetere il boom di “Dancing Queen”. Eppure, nonostante tutto, il successo li bacerà ancora e diventerà ancora più marcato col singolo seguente, un altro dei loro brani più ricordati, l’irresistibile marcetta propulsiva di “Take A Chance On Me”: melodia immediata e strepitosi intrecci vocali, stavolta dal retrogusto jodel, e subito ennesima prima posizione in Uk e terzo posto negli Usa (dove le vendite complessive supereranno persino quelle di “Dancing Queen”).

All’inizio degli anni 90 i quattro componenti degli ABBA sono quasi del tutto dimenticati e ormai percepiti come legati a un passato fin troppo remoto e non abbastanza cool per competere con le grandi popstar inglesi e americane, così sessualmente aggressive e irraggiungibili. Il loro semi-ritiro dalla scene, però, si rivelerà tutt’altro che una resa, perché se il pubblico, anche quello più giovane, non sembra in grado acclamare Frida e Agnetha al fianco di Whitney Houston e Janet Jackson, è invece prontissimo per riscoprire le canzoni che cantavano un tempo. A fine ‘92 tutte le raccolte degli ABBA vengono ritirate dal mercato per far spazio a un nuova retrospettiva intitolata Gold: Greatest Hits e contenente i loro diciannove singoli più famosi; il riscontro è ottimo ed è per molti inspiegabile e assurdo vedere gli ABBA nuovamente in vetta alle classifiche in un momento in cui il grunge inizia a far piazza pulita di tanti e più giovani idoli degli anni 80.
L’anno seguente uscirà anche una seconda raccolta, More ABBA Gold: More ABBA Hits, contenente i loro singoli minori (ma non meno belli) e che purtroppo preferisce sorvolare ancora sulle atmosfere più rock degli esordi per dedicarsi nuovamente ai momenti più luccicanti. L’impatto sull’immaginario popolare è talmente grande che persino un gruppo in fase calante come gli Erasure di Vince Clark riuscirà a dare nuova linfa alla propria carriera pubblicando “ABBA-esque”, un Ep contenente quattro cover degli svedesi. Il trionfo di Gold non sarà un fuoco di paglia e anzi il disco diventerà, con quasi trenta milioni di copie smerciate, uno degli album più venduti di sempre, destinato a essere continuamente ristampato e a rientrare ai piani alti delle chart mondiali negli anni successivi ogniqualvolta il nome degli ABBA sarebbe tornato prepotentemente sotto i riflettori dei media.