Cina: legami tra lockdown e crisi del commercio globale

Foto dell'autore

Di Maria Paola Pizzonia

In Cina, coerentemente alla cosiddetta strategia “Zero-Covid”, ci sono intere città che sono state di nuovo messe in isolamento. Vediamo come questo evento, producendo concause economiche e sociali, sta mettendo in crisi il mercato globale.

A dentro il sempre più acceso dibattito attorno alla pandemia ci sono le opinioni più diverse. La strategia europea sembra star attraversando un punto di svolta: quello del passaggio da emergenza pandemica a gestione endemica. Ma non per tutte le nazioni è così e questo potrebbe portare a conseguenze inattese.

Cina, pandemia, strategia “zero-Covid”:

La decisione del governo cinese è attualmente quella di mettere intere città in lockdown. Questo è conseguenza della scoperta di poche decine di casi positivi da coronavirus. Infatti da qui è iniziata quella che è stata denominata la “strategia zero-Covid”.

Questo significa che da settimane diverse città e regioni della Cina stanno affrontando lockdown più o meno rigidi per cercare di contrastare l’emergere di focolai di contagi da coronavirus. Il tutto nel tentativo di mantenere la strategia. La “zero-Covid” finora ha consentito alla popolazione di vivere in maniera grossomodo normale, nonostante l’aumento dei contagi nel resto del mondo. Imporre lockdown totali o parziali è perciò una mossa del territorio cinese. Mossa che invece è in contrasto con la strategia nascente in Europa, per la quale si asseconda uno scenario endemico.

La strategia cinese potrebbe però portare a conseguenze nient’affatto rosee, soprattutto al livello economico globale.

Assisteremo ad una crisi del mercato mondiale?

La situazione cinese infatti sta peggiorando una delle più grosse crisi emerse nel 2021: quella dei commerci globali. Come?

La crisi riguarda più precisamente della “supply chain” (letteralmente “catena dell’approvvigionamento”). Questo perché i lockdown cinesi stanno riguardando città da milioni di persone. Ciò significa che hanno già provocato la chiusura o il rallentamento della produzione di aziende internazionali che hanno fabbriche in Cina. Queste hanno aggravato i ritardi delle spedizioni marittime, su cui si basa buona parte del commercio globale.

Finora la crisi della “supply chain” è dovuta in buona parte alla mancanza di beni prodotti in Cina. Si parla di beni come i microchip nel settore elettronico. Tale crisi ha causato un aumento generale dei prezzi, portando nelle principali economie mondiali una fortissima inflazione, che è arrivata ai massimi da vari decenni.

Come il Covid influenza l’andamento di grandi aziende:

Negli ultimi giorni, per esempio, l’azienda giapponese Toyota e la tedesca Volkswagen hanno dovuto interrompere la produzione nei propri impianti di Tianjin. Tianjin è una grande città a circa 100 chilometri da Pechino, dal cui porto passa circa l’1,7 per cento delle esportazioni cinesi. La decisione delle due aziende automobilistiche ha avuto legittimazione dopo che domenica nella città il governo aveva pianificato un test di massa ai circa 15 milioni di abitanti.

Va detto che a differenza di altre grandi città, Tianjin non è in lockdown. La situazione tuttavia non cambia molto. Questo perché il test di massa è stato conseguenza di un focolaio in una scuola. Nella scuola hanno rilevato due contagi dovuti alla variante omicron.

Sempre a causa di un piccolo focolaio, Volkswagen ha interrotto la produzione anche in un altro impianto, a Ningbo, nella provincia dello Zhejiang. Ma mettiamo in luce un altro esempio.

La sudcoreana Samsung e la statunitense Micron sono due tra le più importanti società al mondo che producono microchip. Queste stanno avendo diversi problemi nelle loro fabbriche di Xi’an, in Cina. Il lockdown imposto nella città ha infatti impedito in molti casi alle persone di andare al lavoro. Le due aziende hanno quindi avuto rallentamenti nella produzione, anche se per ora non l’hanno interrotta.

A Ningbo per alcuni giorni hanno chiuso invece gli impianti dello Shenzhou International Group. Questi fornisce materiale per grandi aziende di abbigliamento come Nike, Adidas e Uniqlo. Altre interruzioni potrebbero esserci nei prossimi giorni negli impianti di Foxconn, la grande società cinese che produce smartphone e altri dispositivi per conto di aziende come Apple, Samsung e Microsoft.

Una delle fabbriche più importanti è a Zhengzhou, capoluogo dello Henan, dove hanno rilevato 103 contagi. Anche qui, come a Tianjin, non c’è un lockdown generale, ma solo alcune restrizioni e un test di massa ai 10 milioni di abitanti che, comunque, portano gravi conseguenze nelle scelte di gestione economica.

La Cina e il sistema di esportazioni:

C’è poi un altro problema che potrebbe peggiorare la situazione nelle prossime settimane, e che riguarda il sistema delle esportazioni.

Valutiamo che già adesso, a causa delle restrizioni, in alcuni importanti porti come quello di Ningbo si stanno registrando ritardi nelle spedizioni. Da qui le cose potrebbero aggravarsi intorno al 1º febbraio, giorno del Capodanno cinese. Questo perchè di solito molte fabbriche chiudono per circa una settimana. Si verificherebbe quindi un rallentamento sul rallentamento. Potrebbe portare gravissime conseguenze. Perché oltre che a rallentare la produzione, la chiusura delle fabbriche potrebbe causare un ulteriore intasamento dei porti. Porti che devono spedire i container con i prodotti cinesi nel resto del mondo.

Secondo Frederic Neumann, che si occupa di analisi economiche nel mercato asiatico per la holding bancaria HSBC, rispetto ai mesi passati la variante omicron potrebbe aggravare la crisi della “supply chain”.

Questo perché in questi due anni di pandemia la centralità della Cina nei commerci mondiali è diventata ancora più significativa. La pandemia ha reso evidente quanto i consumi dei paesi occidentali dipendano dalla produzione cinese.

Secondo Neumann le restrizioni per la variante omicron nel prossimo futuro potrebbero creare un’enorme interruzione della catena di approvvigionamento, che lui ha definito «la madre di tutti i blocchi della “supply chain”».

Articolo di Maria Paola Pizzonia

Seguici su Facebook