Terminato il congedo obbligatorio, è previsto un periodo di astensione facoltativa per entrambi i genitori, che prende il nome di congedo parentale e che può avere luogo nei primi anni di vita del bambino o della bambina. Questo istituto è attualmente al vaglio del Consiglio dei Ministri, il quale ha da poco approvato le bozze di due decreti legislativi che recepiscono le direttive dell’Unione Europea sulla parità di genere, volgendo lo sguardo ai diritti delle lavoratrici e dei lavoratori.
L’attuale normativa e le modifiche proposte
In base alla normativa vigente, il congedo parentale non può eccedere, complessivamente, i dieci mesi, salvo casi eccezionali, e non può essere superiore ai sei mesi per la madre lavoratrice, a partire dalla fine del congedo obbligatorio, mentre per il padre lo stesso periodo comincia dalla nascita del figlio o della figlia, ed è elevabile a sette mesi qualora egli si astenga dal lavoro per un periodo continuativo o frazionato non inferiore a tre mesi.
Esso è rivolto alle lavoratrici e lavoratori dipendenti, ma non ai genitori disoccupati o sospesi, ai lavoratori domestici o ai lavoratori a domicilio.
Poi, al posto di usufruire del congedo parentale, il decreto legislativo 25 giugno 2015, n. 81, ha previsto la possibilità di richiedere la trasformazione del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale, o anche solamente per la parte del congedo ancora spettante; tuttavia, la riduzione dell’orario di lavoro non può superare il 50 %.
Per quanto concerne la retribuzione, è stabilita un’indennità pari al 60 % entro i primi sei anni del minore (ora elevati a 9), per un periodo complessivo tra madre e padre di sei mesi, che scende al 30 % dai sei anni agli otto del minore (dai 6 ai 12 nelle bozze legislative approvate), solo se il reddito singolo del genitore richiedente sia inferiore a 2,5 volte l’importo annuo del trattamento minimo pensionistico, ed entrambi i genitori non ne abbiano fruito nei primi sei anni; inoltre, il decreto stabilisce che il nuovo congedo parentale debba prevedere anche il diritto a ferie e tredicesima.
Al congedo parentale hanno diritto con le stesse modalità anche i genitori adottivi e affidatari.
Per quanto riguarda i padri lavoratori, ad essi è riconosciuto il congedo di paternità, quale diritto ad astenersi dal lavoro per tutta la durata del congedo di maternità, o per la parte residua che sarebbe spettata alla lavoratrice, ma solamente “in caso di morte o di grave infermità della madre ovvero di abbandono, nonché in caso di affidamento esclusivo del bambino al padre”. Nelle bozze, infine, viene confermato quanto stabilito dalla legge di bilancio n. 178 del 2020, concedendo al padre dieci giorni di congedo obbligatorio retribuito al 100 %, più un ulteriore giorno di congedo facoltativo, utilizzabile dal padre nel caso in cui la madre lavoratrice rinunci ad un giorno del proprio congedo di maternità; essi sono fruibili entro i primi cinque mesi di vita del minore, ma anche negli ultimi due mesi di gravidanza.
“Il rifiuto, l’opposizione o l’ostacolo all’esercizio dei diritti di assenza dal lavoro è punito con la sanzione amministrativa da 516 a 2.582 euro”, si legge nel decreto.
Come la storia dei congedi parentali ha contribuito alla “funzione sociale” della donna
La questione della “funzione sociale” della donna è tornata in auge, negli ultimi tempi, soprattutto in relazione alla catastrofica diminuzione del tasso di natalità.
Questo calo è stato attribuito, non di rado, alle nuove frontiere dell’emancipazione femminile, colpevole di aver inculcato nelle menti delle donne l’idea che esse siano qualcosa in più di una semplice incubatrice: tralasciando tali illogiche affermazioni, è indiscutibile come le donne, oggigiorno, siano più refrattarie nel mettere al mondo dei figli.
Le motivazioni più plausibili si possono rinvenire nella scarsa concretezza delle tutele legislative offerte dalle istituzioni alle lavoratrici madri, e soprattutto nella bassissima copertura economica dei congedi parentali.
Ripercorrendo la storia giuridica, il 1971 rappresenta un punto di svolta, perché è allora che, con la legge n. 1204, è stato riconosciuto il valore sociale della madre lavoratrice.
Infatti, grazie alla legge menzionata, è stata prevista l’astensione facoltativa e obbligatoria della donna dal lavoro in caso di maternità, corredata da differenti trattamenti economici; in seguito, con la legge n. 903 del 1977, sarà vietata “qualsiasi discriminazione basata sul sesso in materia di accesso al lavoro, indipendentemente dalle modalità di assunzione e qualunque sia il settore o il ramo di attività, a tutti i livelli della gerarchia professionale”, aggiungendo che il divieto si applicherà anche alle iniziative in materia “di orientamento, formazione, perfezionamento e aggiornamento professionale”, nonché in tema di retribuzione, di sistema di classificazione professionale, di attribuzione delle e mansioni, di progressione nella carriera e in materia previdenziale.
Ma è nel 1991 che il legislatore ha sottolineato la necessità di maggiore equilibrio tra i due sessi, infatti nelle finalità della legge n. 125, articolo 1, si legge che: “le disposizioni contenute nella presente legge hanno lo scopo di favorire l’occupazione femminile e di realizzare, l’uguaglianza sostanziale tra uomini e donne nel lavoro, anche mediante l’adozione di misure, denominate azioni positive per le donne, al fine di rimuovere gli ostacoli che di fatto impediscono la realizzazione di pari opportunità”, specificando al comma 2, punto e), che si agirà per “favorire, anche mediante una diversa organizzazione del lavoro, delle condizioni e del tempo di lavoro, l’equilibrio tra responsabilità familiari e professionali e una migliore ripartizione di tali responsabilità tra i due sessi”.
In seguito, ci saranno altre produzioni normative in tema di maternità, che poi verranno raccolte nel d.lgs. n. 151, del 2001, intitolato “Testo Unico sulla maternità e paternità”, come stabilito dall’articolo 15, legge n. 53, del 2000.
In conclusione, da questa disamina si percepisce come l’attuale apparato normativo non sia in grado di soddisfare l’obiettivo di una responsabilità familiare condivisa tra padre lavoratore e madre lavoratrice, costringendo quest’ultima a rinunciare a parte dell’orario di lavoro per accudire i figli o, come accade più spesso, ad abbandonare integralmente la propria professione.
Queste conseguenze rappresentano un fattore di rischio per la donna, perché, in un contesto di violenza, la vedranno impossibilita a fare una scelta libera dai vincoli economici: infatti, una madre che non sia in grado di provvedere al suo sostentamento e a quello dei suoi figli preferirà, quasi sempre, sopportare il climax di maltrattamenti in casa, piuttosto che abbandonare il tetto coniugale da sola.
Tuttavia, a prescindere dalle situazioni di violenza, il dovere di prendersi cura della famiglia e il diritto di costruirsi una brillante carriera appartengono sia agli uomini che alle donne: per questo degli interventi da parte dello Stato per potenziare i servizi per l’infanzia, quelli per gli anziani e le persone non autosufficienti e, soprattutto, delle misure che migliorino il sistema scolastico, consentirebbero ad entrambi i generi di godere delle stesse opportunità, favorendo un migliore equilibrio tra contesto lavorativo e vita familiare.
Martina Di Santo
Seguici su Metropolitan Magazine