Immaginiamo un filo teso tra due concetti, due istituzioni delle società contemporanee. Da una parte la violenza di genere, dall’altra il consenso. Il filo è teso, ma percorrendolo l’equilibrio è precario. Uno degli agenti di questa precarietà è lo Stato. Da garante ad attore coprotagonista il passo è breve.
È il caso della recente assoluzione di due uomini accusati di violenza sessuale da una ragazza di 18 anni. Assolti perché “il fatto non sussiste”, cioè la violenza (anche filmata) non era una violenza per il collegio penale. Il tribunale del Riesame di Bologna, come scrive Il Fatto Quotidiano, ha preso tale decisione dopo la visione dei filmati sequestrati. Nei filmati la giovane non si dimostrava in uno stato di piena lucidità, dicono, ma allo stesso tempo è stata dichiarata “pienamente in grado di esprimere un valido consenso al rapporto sessuale“. Se e quando c’è stato questo consenso? Ma ignorando questo, la Convenzione di Instabul dice un’altra cosa: il consenso va rinnovato.
Perché il consenso ha perso il suo valore? Perché non viene presa in considerazione l’alterazione dello stato della ragazza per riconoscere la violenza? Tentiamo di rispondere.
Basta un “no” per fermare la violenza?
Il consenso, non intenso come “cultura/società del consenso”, ma come atto di richiesta, è nullo. A nulla vale rispondere in maniera affermativa o negativa a una richiesta di tipo sessuale se si perde la bussola del consenso. In Italia il reato di stupro però non è definito come “rapporto sessuale senza consenso”, ma è determinato da elementi quali:
con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità costringa taluno a compiere o subire atti sessuali (articolo 609-bis).
Deve esserci un uso esplicito della forza, della minaccia e della prepotenza. Nel caso della giovane di Ravenna però essere stata trasportata in spalla non è stato considerato un atto di forza. Il consenso, semplicemente, non è preso in considerazione.
Secondo l’Istat (rilevazione del 2019) in Italia parte della responsabilità della violenza sessuale subita è della donna. “Il 39,3% della popolazione ritiene che una donna è in grado di sottrarsi a un rapporto sessuale se davvero non lo vuole – e ancora che – Il 15,1% è dell’opinione che una donna che subisce violenza sessuale quando è ubriaca o sotto l’effetto di droghe sia almeno in parte corresponsabile“. Ma non basta dire di “no”? No. Sempre secondo i dati Istat, per il 7,2% delle persone che hanno risposto al sondaggio, “di fronte a una proposta sessuale le donne spesso dicono no ma in realtà intendono sì“.
L’atto del rifiuto: perché il consenso rischia di essere nullo
La filosofia del linguaggio femminista si è interrogata sul linguaggio sessista, opprimente e discriminante. Ne è emerso che il linguaggio non solo è strumento di oppressione, ma è anche il luogo nel quale questa ha origine. Partendo da questa nozione, si può immagine facilmente il fallimento del rifiuto, del “no” di fronte a una richiesta di tipo sessuale.
Per Mary Kate McGowan “la riduzione al silenzio si lega a doppio filo al mancato riconoscimento dell’autorità del parlante“. Sì, anche dell’autorità sul proprio corpo. In questo senso la donna è sempre agente passivo di una richiesta (primo atto locutorio) alla quale può rispondere (secondo atto locutorio) con un rifiuto. Ma qui nasce la domanda sul rifiuto e su quando e quanto sia valido, accettato e riconosciuto.
Allargando la tesi di McGowan oltre alla donna, le figure discriminate e oppresse riescono a dire “no”? Un omosessuale riesce a far valere il proprio “no” o si sentirà rispondere che per il suo orientamento sessuale è impossibile che non gli piacciano tali avances sessuali? Scambiate il soggetto “donna” con una minoranza qualsiasi. Ecco che diventa difficile immaginare una minoranza abbastanza autoritaria alla quale non viene negato il diritto rifiuto.
È colpa della pornografia?
Dov’è che nasce l’immaginario del “no” che non significa davvero “no”? Per McGowan l’origine (e quindi la colpa) ricade sulla pornografia. In quell’ambiente che rispecchia il desiderio etero, bianco, cis di un uomo. Dagli anni Cinquanta la pornografia è un prodotto di uomini per uomini. “La ricerca del piacere, che non sia quella del maschio, non è immaginata“, scrive Valentine (aka Fluida Wolf) in Post porno. Così va in scena la normalizzazione dello squilibrio di potere e la violenza. Il “no”, il rifiuto che non è davvero un rifiuto, viene depotenziato.
Come ha risposto una parte del femminismo? Negli anni Ottanta si puntò il dito contro la pornografia. Era il perfetto bersaglio per spiegare l’oppressione politica e sessuale delle donne. Lo studio di Mary Kate McGowan emerge proprio in questi anni.
Non possiamo però dire che la pornografia oggi sia la sola responsabile dell’annullamento del consenso. Anzi in determinati ambiti, come nella pratica del BDSM, il consenso è espresso tramite una parola di sicurezza. Dov’è quindi che possiamo invece riscontrare la messa in scena del no? Nel linguaggio.
La società del consenso: richiesta e proposta
È tutta una questione di linguaggio. Qual è la differenza tra richiesta e proposta? Con richiesta si intende l’atto di domanda, per esempio, l’utilizzo di un oggetto che non ci appartiene. Non coinvolge direttamente il suo possessore, cioè l’individuo alla quale è rivolta la richiesta.
es: “Posso utilizzare il tuo computer?” [richiesta]
Si riconosce, nella richiesta, il non possesso dell’oggetto e l’autorità dell’altra persona su quello. La proposta invece prevede una collaborazione. La persona interrogata viene coinvolta nella proposta.
es: “Andiamo a mangiare qualcosa?” [proposta]
Anche in questo caso è riconosciuta l’autorità sull’oggetto (il corpo). L’annullamento del rifiuto, il depotenziamento del “no”, è quindi la manifestazione di un’idea di squilibrio di potere tra le parti e tra i parlanti.
Il problema non è la pornografia, ma il consenso
Ed è qui che dobbiamo tornare sul concetto di pornografia intesa non come espediente per normalizzare la violenza, ma come esempio di consenso. Quello che si vede in un prodotto pornografico è il consenso firmato attraverso un accordo (o contratto) tra le parti. È una proposta di collaborazione, se così vogliamo descrivere l’industria pornografica etica.
Non è colpa della pornografia perché non è il compito della pornografia fornire l’educazione sessuale e sentimentale che serve per comprenderla. Non serve puntare il dito contro il sex work, quanto contro la mancata educazione sessuale nelle scuole. Dopotutto è quella la sede per apprendere i significati di termini com consenso, sessualità, sentimenti etc etc..
La prevenzione passo però anche attraverso il linguaggio. Questo va usato per raccontare eventi e fare informazione nel modo giusto, con il giusto registro e lessico. Bisogna insegnare che “no means no”, senza nessuna possibile sfumatura.
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Articolo di Giorgia Bonamoneta.