La Cina, tra dittatura e voglia di democrazia, si trova ad affrontare la crisi del coronavirus e le proteste per la libertà di parola. Ma qual è il rapporto ha il Paese del Dragone con i diritti umani?
La Cina tra dittatura e democrazia
Al netto delle immagini propagandistiche e della politica muscolare a cui stiamo assistendo, l’epidemia del coronavirus sta mettendo in ginocchio il sistema sanitario cinese ed aprendo una breccia nell’apparente impenetrabile roccaforte del potere del Partito Comunista.
Dissidi vecchi e nuovi, malumori a lungo nascosti e rimasti a covare in silenzio stanno ora riesplodendo e propagandandosi ad una velocità uguale alla diffusione del coronavirus ed il governo è dovuto correre ai ripari. Lo scoppio dell’epidemia, infatti, ha spinto il Partito Comunista a rafforzare il meccanismo di propaganda.
Il mondo intero ha guardato con ammirazione le immagini che provenivano dai cantieri dei nuovi ospedali di Wuhan, con decine di gru e centinaia di operai che lavoravano alacremente per permettere la realizzazione di un progetto così ambizioso.
La messa in quarantena dell’intera provincia dello Hubei, così come la costruzione dell’ospedale, che non è un vero ospedale, bensì una serie di prefabbricati attrezzati unicamente per la quarantena dei pazienti infetti, sono mosse miranti esattamente a rafforzare l’immagine del governo nei confronti della popolazione e della comunità internazionale.
Le immagini pubblicate dalla CCTV, televisione di stato cinese, con riprese dall’alto, slow&fast motion, musica di sottofondo, interviste agli operai, stanchi ma motivati a proseguire il lavoro per raggiungere l’obiettivo, sono la prova che la propaganda agisce incessantemente anche in tempo di crisi.
È come se il governo, attraverso quelle immagini, dica ai suoi cittadini: “Ci siamo, non vi lasciamo mai soli”; ma qualcosa si nasconde sotto la patina della propaganda governativa.
Le foto dei volti dell’eroico personale medico cinese, rigati dall’elastico della mascherina che sono costretti ad indossare per giorni interi, tocca il cuore di chi li guarda, ma raccontano qualcosa in più della semplice abnegazione.
Quei volti segnati sono la testimonianza di una situazione stressante e disperata che ha messo a dura prova la famosa resilienza del popolo cinese, e, in una situazione di caos come quella attuale, sorprendente che il governo impieghi mezzi e risorse non solo per fronteggiare la crisi, ma anche per mettere a tacere qualunque manifestazione di dissenso.
La morte del Dott. Li apre un nuovo capitolo della storia contemporanea della Cina
La morte del Dott. Li Wenliang, colui che per primo identificò il nuovo virus mettendo in guardia alcuni dei suoi colleghi, e che, in un primo momento, fu stato silenziato dal governo, ha aperto una ferita nel cuore dei cittadini cinesi e, in particolare, in quello della città di Wuhan.
La sua morte, avvenuta il 6 febbraio a causa dello stesso coronavirus, ha risvegliato la coscienza dei cittadini, esasperati dalla situazione di emergenza e stanchi di doversi autocensurare per non essere invisi al Partito.
Il suo nome, urlato a squarciagola dai balconi dai cittadini della “città asserragliata”, ha dimostrato, una volta di più, che il popolo cinese non è quella massa informe e indefinita pronta ad obbedire ciecamente alle direttive governative.
Accanto alla straordinaria crescita economica, che ha portato ad un aumento della qualità di vita della popolazione, per lo meno nella fascia costiera del paese, è maturato un desiderio di ammodernamento del paese anche sul fronte dei diritti civili. I segnali sono confusi e disordinati, ma sempre più numerosi.
L’hashtag #VogliamoLaLibertàDiParola, lanciato su Weibo all’indomani della morte del Dott. Li, ed immediatamente censurato dalla “polizia online”, rappresenta l’evidenza del sentimento popolare.
Quanto sta accadendo ha del sorprendente, ancora di più perché avviene in un paese nel quale la popolazione, storicamente, ha sempre ragionato, più che in termini di libertà, in termini di efficienza del potere governativo.
Sia ben chiaro, è difficile pensare che, superata la crisi del coronavirus, il popolo cinese darà vita ad una massiccia campagna di proteste antigovernative, ma ciononostante sembra che il seme della rivoluzione si stia radicando nell’humus della disperazione popolare; la dittatura monopartitica, l’assenza di vere garanzie costituzionali e di elezioni libere, la censura ed il controllo delle attività dei cittadini, la Grande Muraglia Digitale che impedisce l’accesso all’internet globale, le elezioni locali farlocche che impediscono ai candidati indipendenti di fare una vera campagna elettorale, la soppressione delle voci contrarie al partito e così via hanno messo a dura prova la pazienza della popolazione, e lo scoppio dell’epidemia ha esasperato il malcontento.
È notizia di qualche giorno fa, infatti, l’appello di alcuni accademici cinesi di istituire la “Giornata della libertà di parola“, scegliendo la data del 6 febbraio, giorno della morte del Dott. Li.
“Non lasciamo che Li Wenliang sia morto invano”, sarebbe stato questo l’appello lanciato dagli accademici sul web e condiviso da milioni di cittadini cinesi, chiedendo, inoltre, il rispetto della Costituzione che garantisce, in teoria, la libertà di parola.
Fra i promotori dell’appello, spicca il nome di Tang Yiming, a capo della Facoltà dei classici cinesi all’Università normale di Wuhan:
A partecipare all’appello anche Zhang Qianfan, professore di diritto dell’Università di Pechino, il quale ha dichiarato che la morte di Li Wenliang:
Il disegno egemonico di Xi Jinping
La Cina è in crisi; durante il 2019 si sono susseguiti tutta una serie di eventi che hanno dato filo da torcere al Partito Comunista: la guerra dei dazi, il rallentamento dell’economia, le proteste di Hong Kong, la vittoria del partito indipendentista alle elezioni di Taiwan sono solo alcuni dei segnali di questa crisi.
Il governo arranca, nonostante Xi Jinping tenti di mostrarsi alla popolazione ed alla comunità internazionale come un leader capace di fronteggiare le difficoltà, in particolare l’epidemia del coronavirus, che ha generato confusione anche nell’enorme apparato propagandistico del Partito Comunista.
È notizia recente, infatti, che Xi Jinping era a conoscenza dello scoppio dell’epidemia. Il 3 febbraio, in un discorso ai dirigenti del Partito Comunista, aveva detto: “Il 7 gennaio, ho dato ordini verbali e istruzioni sulla prevenzione e il contenimento del coronavirus“. Questo dimostra che Xi è in seria difficoltà di fronte a questo evento imprevisto.
“State in guardia contro i cigni neri”
Eppure dal Lìder Màximo del Paese del Dragone ci si aspettava il contrario, e per un motivo ben preciso.
Nel febbraio del 2019, Xi Jinping, in un discorso tenuto presso la Scuola centrale del Partito (Scp), allertò i funzionari sullo “stare in guardia contro i cigni neri”, eventi imprevedibili che potrebbero ostacolare il normale corso degli eventi, come attentati terroristici, calamità naturali o, per l’appunto, epidemie.
L’intelligenza, la cultura e la lungimiranza di Xi fanno da contraltare ad un egocentrismo e sete di potere paragonabili solo a quelle di Mao, se non anche superiori. Xi, in preda ad un complesso di superiorità, ha riunificato in un’unica persona le funzioni di Segretario del Partito e Capo di Stato ed ha modificato la Costituzione in modo da abolire il limite del doppio mandato.
Le nuove riforme, unite ad una lotta alla corruzione che, tra gli altri, ha colpito anche gli oppositori interni al partito, incarcerandoli o condannandoli a morte, hanno fatto sì che Xi diventasse, ancor più che dittatore a vita della Cina, il sovrano di una nuova dinastia dell’Impero Celeste.
Benché terrificante, il disegno egemonico di Xi Jinping ha un che di straordinario. Il suo progetto mira a riportare la Cina ai fasti di un tempo dopo il cosiddetto “secolo delle umiliazioni”, che va dalla metà dell’800 e la metà del ‘900, quando imperi occidentali, Gran Bretagna in testa, e forze straniere come l’Impero Giapponese soggiogarono il paese.
Il trascorso familiare di Xi Jinping
La Cina non può più essere considerata un paese socialista, eppure tutti i leader che si sono succeduti nel tempo hanno lavorato duramente per creare una narrazione che li collegasse alla Rivoluzione Culturale di Mao. In quest’ottica, Xi ha potuto inserirsi abilmente nella narrazione di cui sopra.
Il padre dell’attuale Capo di Stato, Xi Zhongxun, fu un comunista fedele al Partito, benché mal visto durante il periodo della Rivoluzione per via del suo moderatismo.
Nel 1962 approvò la pubblicazione di un libro che secondo molti era critico nei confronti di Mao Zedong. Questo gli costò diverse condanne. In un primo momento fu spedito a lavorare in una fattoria dell’Henan, poi imprigionato e torturato più volte in quanto elemento che si opponeva al Partito. Anche il figlio Jinping fu allontanato da Pechino e imprigionato più volte per via delle colpe del padre.
Xi Zhongxun, però, fu riabilitato da Deng Xiaoping, pioniere della riforma economica cinese in senso capitalista, e lavorò al suo fianco nella creazione delle zone economiche speciali atte a favorire la crescita industriale del paese.
Il “Sogno Cinese” e il concetto dell’armonia
La storia travagliata, familiare e personale, di Xi Jinping, unita all’assoluta fedeltà al partito, lo pone entro il solco della storia del Comunismo Cinese.
In più, con abile attività intellettuale, Xi è riuscito a far convivere il concetto di “Uomo nuovo” di stampo Maoista, che rinnegava ed eliminava il passato del paese, con la teorizzazione del “Sogno Cinese”, termine coniato dallo stesso Xi Jinping nel 2013 e basato sul raggiungimento di una serie di obiettivi, individuali e collettivi, finalizzati a rendere nuovamente grande la Cina.
Se agli occhi di un occidentale questi due concetti possono sembrare incompatibili, non lo sono per la popolazione cinese, il cui fondamento filosofico-religioso della propria cultura è rappresentato dal taoismo (dao), principio unico che regola il mondo, che, tra le altre cose, contempla l’armonia degli opposti, come nel caso dello Yin (il lato oscuro) e dello Yang (il lato luminoso).
Il difetto nel pensiero di Xi, che pure persegue lo scopo dell’armonizzazione della società, e proprio nel confondere il concetto di armonia, come accordo di diversi elementi, con i concetti di omologazione ed assimilazione.
Sotto la scure del regime ci è finita non solo la popolazione in generale, impossibilitata ad esprimersi liberamente e sviluppare un pensiero critico, ma anche le varie etnie che vivono nel paese, 65 per la precisione, costrette ad abdicare alla loro cultura per aderire al “Sogno Cinese”, come accade ai buddisti tibetani o ai musulmani dello Xinjiang.
Si aggiunga al quadro il perverso sistema del credito sociale, un programma nazionale di sorveglianza della popolazione che mira ad inserire in categorie i cittadini in base alla propria affidabilità, al fine di indurli ad adottare un comportamento in linea con le volontà del governo, oramai fossilizzato sul desiderio di controllare ogni aspetto della vita del cittadino.
L’immagine che viene fuori è quella di un paese che, all’apparenza, tenta di aprirsi al resto del mondo e assurgere ad un ruolo di primo piano nello scacchiere internazionale, ma che rifiuta in toto i principi di libertà e i diritti universali dell’uomo che rappresentano, o dovrebbero rappresentare, la conditio sine qua non dell’appartenenza alla comunità internazionale.
Il risultato finale è una sorta di musica cacofonica, esattamente l’opposto dell’armonia che tenta di orchestrare il Partito Comunista; in questo stato di cose, la popolazione cinese vive in un limbo, divisa tra la volontà di affermazione ed ammodernamento del proprio paese, e la voglia di libertà che è propria di ogni essere umano.
La mancanza di attrattiva del modello cinese
Questo ibrido rende la Cina sì una potenza a livello mondiale, ma anche un attore temibile e visto con diffidenza. È proprio per questo che la Cina non riesce a generare quel tipo di attrattiva nei confronti del resto del mondo come invece è riuscito a fare l’altra potenza imperialista moderna, vale a dire gli Stati Uniti d’America.
Fin dal dopoguerra, gli USA si sono imposti come potenza egemone a livello globale, ma anche come centro culturale dell’occidente; il sogno americano, il progresso scientifico, il cinema hollywoodiano, la musica Rock, la Pop-Art, la rivoluzione digitale della Silicon Valley e, in generale, la vivacità artistica e culturale dell’impero a stelle e strisce hanno permesso agli americani di accreditarsi di fronte all’opinione pubblica occidentale come il modello da seguire.
Questo non accade in Cina che ha certamente dalla sua una cultura millenaria, ma che non riesce ad imporsi come modello seducente, intrappolata nella sua contraddizione di seconda potenza economica mondiale e di paese in via di sviluppo.
Se da un punto di vista economico, finanziario e tecnologico, la Cina è riuscita a tessere una rete che parte da Pechino e si articola in tutto il resto del mondo, dall’altra parte manca di quella vivacità di cui sopra e di una cultura dei diritti umani che invece rappresentano il fondamento del mondo occidentale moderno ed elemento di forte attrattiva; al contrario, sempre di più si assiste ad una depressione dell’editoria e della stampa, oramai costantemente minacciata dal potere centrale e da una politica regressiva che si impone come l’unico modello in grado di gestire gli 1,4 miliardi di cittadini cinesi, quasi a voler sottovalutare la propria popolazione e considerarla come incapace di tracciare il proprio futuro.
Il rapporto della Cina con la democrazia
Ogni volta che si parla di democrazia in Cina si finisce per camminare in un sentiero sconosciuto. La storia millenaria del Paese del Dragone è segnata da un susseguirsi di dinastie, ed il Partito Comunista, con le dovute distinzioni, può essere considerata una di queste.
Mai nella storia, la Cina ha realmente conosciuto la democrazia come la si intende nel mondo occidentale, pur non mancando alcuni segnali che, in passato, hanno fatto pensare alla possibilità di abbracciare il modello democratico.
Bisogna però premettere che la Costituzione, all’articolo 1, recita che “La Repubblica Popolare Cinese è uno stato socialista sotto la dittatura democratica popolare diretta dalla classe operaia e basata sull’alleanza degli operai e dei contadini“.
Fa eco il secondo articolo della Costituzione, secondo il quale “Tutto il potere nella Repubblica popolare cinese appartiene al popolo. Congresso Nazionale del Popolo e assemblee popolari locali ai vari livelli sono gli organi attraverso i quali il popolo esercita il potere statale. La gente gestisce gli affari di stato e gli affari economici, culturali e sociali attraverso vari canali e in vari modi, secondo la legge“.
In senso lato, quindi, la Cina si considera già una democrazia, di stampo Marxista per la precisione, il che rende ancora più confuso il quadro della forma di governo cinese. Quel che è certo, però, è che nessuno considera la Cina come veramente democratica, mancando un vero e proprio sistema di coinvolgimento dei cittadini nelle scelte governative che conferirebbe al popolo un reale potere.
In fin dei conti, è stato lo stesso Xi Jinping, in un discorso tenuto al Collegio d’Europa nel 2014, ad ammettere che il modello democratico multipartitico di stampo occidentale è incompatibile con l’esperienza Cinese. In quella occasione, il Presidente Cinese ha dichiarato:
Con queste parole Xi ha illustrato alcune convinzioni della classe dirigente cinese: anzitutto, ogni paese ha il diritto di scegliersi il sistema di governo che gli è più congeniale. In secondo luogo, il modello liberal-democratico non è necessariamente il modello migliore; anzi, la Cina è convinta che le democrazie sono impossibilitate a governare efficacemente proprio per via delle elezioni, che impongono al leader di turno di impegnare i propri sforzi nelle attività di consolidamento del consenso, rendendo impossibile predisporre piani di lunga durata.
Il sistema meritocratico cinese
Un ulteriore elemento che differenzia sostanzialmente i due modelli è quello della meritocrazia: storicamente, quella cinese è stata la prima civiltà ad introdurre il meccanismo dei concorsi pubblici per selezionare la propria classe dirigente: il sistema degli esami statali fu introdotto addirittura durante l’era della dinastia Han (206 a.C.-220 d.C.) e fu via via perfezionato nel corso dei secoli.
Già nell’era imperiale, chiunque ambiva ai ruoli di più alto rilievo all’interno della burocrazia statale, doveva superare una serie di esami che accertavano la conoscenza dei testi classici, in particolare i Quattro Libri Canonici (Sishu), ovverosia il Daxue, il Lunyu, il Mengzi e il Zhongyong; seguivano poi esami che accertavano l’abilità nella composizione letteraria e, ovviamente, quelli che accertavano il possesso delle capacità necessarie per lo svolgimento dell’incarico.
Il sistema meritocratico nella selezione della classe dirigente è rimasto un principio cardine anche in epoca moderna; i membri del partito, così come quelli dell’Assemblea Nazionale del Popolo, rappresentano l’èlite della popolazione cinese in ogni ambito, da quello accademico-scientifico, fino a quello politico-amministrativo.
Non sorprende, quindi, che i cinesi vedano con diffidenza il sistema democratico occidentale, che è basato più sul consenso elettorale che sulle vere capacità della classe dirigente.
In quest’ottica, il governo cinese può ben ritenere che non solo il proprio modello possa essere alternativo a quello democratico, ma addirittura superiore in termini di efficenza. Questo rappresenta una chiave di lettura fondamentale per comprendere la diffidenza che la Cina prova nei confronti delle liberal-democrazie.
Al riguardo, esiste un interessante retroscena raccontato da Gennaro Sangiuliano nel libro “Il nuovo Mao“.
In un incontro avvenuto in Sardegna nel novembre del 2016 tra Matteo Renzi e Xi Jinping, l’allora Premier chiese al Presidente cinese:
La risposta di Xi Jinping fu lapidaria:
I movimenti democratici nella Cina moderna
Eppure non può dirsi che i cinesi siano culturalmente, quasi geneticamente, incompatibili con la democrazia, anzi. Le recenti e lunghissime proteste di Hong Kong, così come le elezioni di Taiwan di inizio anno che hanno visto la vittoria di Tsai Ing-wen, leader del Partito Progressista Democratico, storicamente a favore dell’indipendenza dalla Cina continentale, sono un chiaro esempio di come l’idea che la popolazione cinese possa essere governata soltanto in maniera autoritaria sia priva di fondamento.
Anche nel corso della storia recente del paese più volte si sono interfacciati movimenti pro-democrazia che si ponevano in contrasto con il sistema di potere classico.
Piazza Tienanmen, la Porta Celeste che separa la città di Pechino dalla Città Proibita, dove oggi campeggia il ritratto di Mao Zedong, rappresenta il luogo geografico entro il quale, in più occasioni, si sono tenuti movimenti e manifestazioni democrazia.
Il movimento del 4 maggio
Il 4 maggio del 1919 gli studenti cinesi chiesero al governo di non firmare il Trattato di Versailles che avrebbe trasferito il controllo della penisola dello Shandong dalla Germania al Giappone.
In quell’occasione, gli studenti, riuniti in Piazza Tienanmen, chiesero a gran voce l’adozione dei modelli democratici occidentali, riadattati al contesto cinese. Lo slogan di quelle manifestazioni aveva due parole d’ordine: dé xiānsheng (Signora Democrazia) e sài xiānsheng (Signora Scienza).
Le proteste di Piazza Tienanmen del 1989
Il secondo e più celebre movimento democratico in Cina ha come ambientazione sempre Piazza Tienanmen; nel 1989 in tutta l’Europa dell’est iniziarono fermenti rivoluzionari che portarono alla caduta di diversi regimi comunisti del blocco sovietico. Il vento rivoluzionario si spostò anche ad est. Tra il 15 aprile e il 4 giugno gli studenti delle università occuparono la piazza chiedendo riforme in senso democratico.
Nell’immaginario collettivo, quell’occasione viene ricordata per le immagini del “Rivoltoso Sconosciuto“, uno studente che, da solo, si piazzò davanti ad una fila di carri armati per impedirne il cammino.
La notte del 3 giugno gli “Otto Immortali“, ovverosia i membri più potenti ed influenti del Partito Comunista, presero la decisione drastica, suggerita da Deng Xiaoping, di far muovere le truppe dell’esercito verso Piazza Tienanmen, aprendo il fuoco sui civili, considerati come “controrivoluzionari al soldo delle potenze estere”. Ancora oggi non è certo il numero delle vittime della strage, che vanno da alcune centinaia fino a 2600 morti circa.
In quell’occasione, spiccò la figura del Segretario Generale del Partito, Zhao Ziyang, l’unico tra le più alte cariche ad opporsi alla proposta di repressione voluta dagli “Otto Immortali”.
Zhao Ziyang, consapevole delle tragedia che si sarebbe verificata da lì a poco, sfidò apertamente il Partito e si recò in piazza per convincere gli studenti a terminare l’occupazione e di mettersi in salvo.
Quell’opposizione gli costò la purga da parte del regime cinese, che lo confinò agli arresti domiciliari fino alla sua morte, avvenuta all’età di 85 anni nel 2005.
Da allora, si sono palesate alcune personalità cinesi che, in un modo o nell’altro, hanno tentato di opporsi al disegno autoritario del Partito Comunista, come Liu Xiaobao, attivista per i diritti umani e Premio Nobel per la Pace, promotore del manifesto “Charta 08“, un appello al rispetto dei diritti individuali, della libertà di espressione e di elezioni democratiche pubblicato nel 2008 in occasione del 60° anniversario della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo.
Qualcosa sta cambiando
Tornando al presente, è chiaro oramai che il sistema scricchiola sotto il peso dell’epidemia, e la popolazione, approfittando della situazione, ha tentato, benché timidamente, di riappropriarsi del ruolo centrale cui gli spetterebbe in una Repubblica che si definisce “Popolare”.
Il cigno nero, o meglio uno stormo di cigni, sta volando sulle acque stagnanti del sistema comunista. Il rallentamento nella crescita economica, la disuguaglianza tra le città costiere e l’entroterra cinese, la guerra commerciale degli Usa e l’epidemia del coronavirus hanno colpito nel fianco il governo, troppo in difficoltà per impedire che il fiume in piena dell’indignazione popolare distruggesse la diga del Great Firewall Cinese.
Mai come in questo momento il web è inondato da notizie e filmati provenienti dal Paese del Dragone, con immagini che testimoniano una situazione di psicosi collettiva che porta i cittadini a guardarsi con sospetto.
Ancor più interessante, però, sono i video di chi, nel suo piccolo, tenta di opporsi alla propaganda del regime; ne sono prova il video di un ragazzo di Wuhan che criticava le misure messe in atto dal governo per contenere la crisi, il caso del Dott. Li Wenliang, morto come un martire ed omaggiato da tutto il popolo, o la scomparsa di Chen Quishi, avvocato e citizen journalist, che per settimane ha documentato la situazione reale di Wuhan.
La lettera di Xu Zhangrun al popolo cinese
Oltre a questi casi eclatanti, sempre più voci provenienti dalla Cina manifestano il proprio malcontento, perché “non si può chiudere la bocca ad un miliardo e quattrocento milioni di cinesi”.
Questa frase è stata scritta da Xu Zhangrun, professore dell’Università “Tsinghua” di Pechino, in una lunga ed accorata lettera indirizzata al popolo cinese.
Ad onor del vero, Xu Zhangrun è un ex professore, fu demansionato e relegato ad incarichi accademici minori quando, nel giugno del 2018, criticò aspramente la riforma costituzionale di Xi Jinping che eliminava il limite del doppio mandato del Capo di Stato.
Nella sua lettera, Xu Zhangrun esorta il popolo a rialzare la testa, e noi vi riproponiamo il finale.
Il finale della lettera di Xu Zhangrun
Mentre scrivo queste parole rifletto sulla mia situazione che, nel 2018, è mutata in maniera drammatica. Per aver alzato la voce allora, sono stato punito per “crimini di parola”. Successivamente, sono stato sospeso dal mio lavoro di docente universitario e ridotto a un grado accademico minore. Sono stato messo sotto inchiesta dal mio datore di lavoro, l’Università Tsinghua; da allora le mie libertà sono state ridotte. Scrivendo come faccio qui, posso prevedere fin troppo facilmente che sarò sottoposto a nuove punizioni; in effetti, questo potrebbe anche essere l’ultimo pezzo che scrivo. Ma non sta a me dirlo.
Di fronte a questo Grande Virus, come tutti in questo momento, mi sento come se si fosse aperta una grande voragine davanti a tutti noi e mi sento costretto a parlare ancora una volta. Non c’è rifugio da questa realtà virale e non posso rimanere in silenzio. Agire in qualsiasi altro modo significherebbe tradire la mia natura. Nella filosofia occidentale la chiamano “giusta indignazione”; è una sorta di furia che deriva da ripetute ferite. I nostri stessi pensatori ne parlano come di una combinazione di umanità e un senso di giustizia. È [ciò che Mencio] ha chiamato “la vera via del cuore umano” e, così agitato, io – uno studioso di libri che osa pensare a sé stesso come ad un “intellettuale” – sono pronto a pagare con la mia vita.
[Qui l’autore cita il testo di Mencio: “La benevolenza è il cuore dell’uomo, e la rettitudine il suo cammino. Triste è infatti quando un uomo abbandona la strada giusta invece di seguirla e lascia che il suo cuore si smarrisca senza abbastanza senso per percorrerla”. Mencio, Libro VI, Parte A: 11.]
Alla fine, si tratta della Libertà, quella qualità trascendente; la sorgente e il fulcro dell’azione cosciente; quel valore secolare che si è dimostrato essere l’aspirazione più divina dell’umanità; quell’innata sensibilità che ci rende veramente umani; quell’ineffabile “tale” che noi cinesi condividiamo con tutti gli altri. Lo spirito del mondo, quello spirito incarnato sulla terra, rende possibile un glorioso dispiegarsi della Libertà stessa. Ecco perché, amici miei innumerevoli compatrioti, anche se ci troviamo di fronte a un mare di fiamme, possiamo lasciarci trattenere dalla paura?
Oh, terra immensa sotto i nostri piedi, è a te che mi rivolgo ora:
Tu ispiri i sentimenti più profondi, eppure puoi essere crudele nella tua distribuzione. Nonostante la tua promessa, troppo spesso ci assali con problemi incessanti. A poco a poco rosicchi la nostra pazienza, a poco a poco ci strappi la nostra dignità. Ti meriti tutte le nostre lodi o sei degna solo delle nostre maledizioni? Una cosa la so, ed è una verità duramente conquistata: al solo parlare di te i miei occhi si riempiono di lacrime e il mio cuore ansima. Ed è così che ti dico, con le parole del poeta:
Non andartene docile in quella buona notte,
i vecchi dovrebbero bruciare e delirare al serrarsi del giorno;
infuria, infuria, contro il morire della luce.
Dylan Thomas
Ed è per questo che la gente come me – deboli studiosi quali siamo – sono inutili, perché non possiamo fare altro che lamentarci, prendere la penna, avvalerci di ciò che scriviamo per lanciare appelli alla decenza e avanzare richieste in nome della Giustizia. Di fronte alla crisi del coronavirus, di fronte a questo mondo disordinato, mi unisco ai miei compatrioti – 1,4 miliardi di uomini e donne, fratelli e sorelle della Cina, le innumerevoli moltitudini che non hanno modo di fuggire da questa terra – e li esorto: infuriatevi contro questa ingiustizia; lasciate che le vostre vite brucino con una fiamma di decenza; sfondate le tenebre che si addensano e accogliete l’alba.
Lottiamo ora insieme con il nostro cuore e la nostra mente, anche con la nostra stessa vita. Abbracciamo il calore di un sole che offre ancora libertà per questa nostra vasta terra!
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