Nel corso degli ultimi dieci, quindici anni, sempre più di frequente in ambito musicale abbiamo osservato la tendenza da parte di band/artisti solisti a reinterpretare un album del proprio passato – divenuto nel frattempo un classico – su disco o in tour, tornando così a visitare metaforicamente certi luoghi della giovinezza, degli esordi, sfogliando ancora pagine di un passato trascorso ma non per questo privo di possibilità e suggestioni, riaccendendo quel “fuoco indimenticabile” alla luce della maturità acquisita, di un percorso ormai ben delineato seppur in continuo movimento ed evoluzione.
Tralasciando motivi e dinamiche legate a questo fenomeno (strettamente collegato alla ‘febbre da reunion’, occorrerebbe un lungo articolo a parte), e non volendo neppure esprimere giudizi di valore a riguardo, ci limitiamo a includere Cristina Donà, cantautrice tra le più brillanti del panorama italiano, nel novero dei “viaggiatori a ritroso” incuriositi alla ricerca di un Tempo Perduto e, chissà, forse anche Ritrovato, con la complicità del pubblico in sala. Operazione, va detto subito, riuscita con Grazia e con successo.
“Tregua”, il primo album di Cristina, uscì nel 1997 con la produzione artistica di Manuel Agnelli e la presenza in studio di valenti musicisti appartenenti a formazioni allora in voga (La Crus, Ustmamò, Casino Royale, Santa Sangre). Un disco d’esordio che fa storia a sé tra quelli della Donà, considerando il percorso di scrittura, composizione e arrangiamento intrapreso successivamente.
Undici brani per un’esperienza d’ascolto ben definita nei colori e nelle trame: una ragazza – allora ventottenne – cacciatrice e allo stesso tempo preda di inquietudini, fragilità, dubbi, esprimeva sé stessa in un ambiente che immaginiamo circoscritto a una camera da letto ammantata di buio, un poco polverosa e per nulla ammobiliata. Il nero, il grigio e il blu erano i colori dominanti, mentre le tonalità minori e gli intrecci di chitarre elettriche, acustiche e tastiere facevano vibrare l’atmosfera in una vertigine sinuosa e seducente.
L’assenza, la mancanza di qualcuno o qualcosa, l’attesa di un ritorno o il coraggio di una partenza animavano la notte al lume di candela di questo album sorprendente, occasionalmente trafitto da raggi di sole. L’autrice sarebbe uscita quasi subito dalla claustrofobia sensuale di quella stanzetta, rendendo meno astratta e criptica la scrittura dei testi e accogliendo tante altre sfumature cromatiche nella sua musica.
L’occasione, dopo vent’anni, di rieseguire “Tregua” nella sua interezza arriva dalla recente pubblicazione dell’album “Stelle Buone 1997/2017”, lavoro nel quale la Donà ha chiamato alcune tra le più valide voci della nuova scena italiana per reinterpretare appunto quel disco d’esordio.
Da qui l’idea di dare un seguito fatto di esibizioni dal vivo e condivisione col pubblico a quanto era stato ripercorso e ritrovato. Una tournée iniziata in estate e ripresa alla fine di ottobre, giunta con la tappa romana del Monk quasi all’epilogo. Sul palco ritroviamo Cristiano Calcagnile alla batteria (autore anche degli arrangiamenti) e Lorenzo Corti alla chitarra, musicisti che collaborano con la Donà sin dai suoi esordi, affiancati dalle ‘new entry’ Danilo Gallo al basso e Gabriele Mitelli alla tromba.
Ed ecco Lei davanti a noi, qui e ora, sul palco, per condurci con una voce sempre più evocativa e densa di sfumature in un viaggio lungo ben due ore: due terzi del concerto saranno, come sappiamo, dedicati a “Tregua”, quindi un ricco Bis di sette brani estrapolati tra quelli che anche i suoi fans amano di più (una struggente “Universo” solo voce e chitarra; “Goccia”, “Il senso delle Cose”, “Dove Sei Tu” le più applaudite) e cantati insieme.
Interessante notare come e quanto Cristina tenga a stemperare la tensione palpabile e l’oscurità racchiuse in “Tregua” con le ‘armi’ dell’ironia, della maturità, dell’esperienza, della serenità e dell’equilibrio acquisito da una ragazza diventata donna e poi moglie e madre.
Mentre i suoni e gli arrangiamenti restano colmi di Pathos, inevitabile che l’autrice non si rispecchi più in quell’ex fanciulla tormentata, e che quindi attraverso battute, movenze spiritose, aneddoti leggeri e un tocco di istrionismo marchi elegantemente una distanza tra il ‘quello che era’ e il ‘quello che è’.
E come di frequente accade in occasioni di questo tipo, anche per il pubblico il viaggio alla riscoperta di un album ormai riposto negli archivi si fa occasione collettiva per una passeggiata dolce/amara attraverso ‘viali dei ricordi’ assortiti, scorgendo l’ombra di chi un tempo si era stati, con il corollario di luoghi, persone e cose che hanno colorato e riempito la vita di qualcuno che non siamo più noi, ma che non per questo non desideriamo ricordare, salutare un’ultima volta.
Ariel Bertoldo