“Da 5 Bloods”, Chadwick Boseman eroe per Spike Lee

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Di Redazione Metropolitan

 Delroy Lindo, Norm Lewis, Clarke Peters, Isiah Whitlock Jr., and Chadwick Boseman in Da 5 Bloods (2020) - Ph. credit: IMDB.com
Delroy Lindo, Norm Lewis, Clarke Peters, Isiah Whitlock Jr., and Chadwick Boseman in Da 5 Bloods (2020) – Ph. credit: IMDB.com

Sarei il primo della fila se ci fosse un film su un eroe vero, dice Melvin (Isiah Whitlock Jr.), uno dei Five Bloods (fratelli) protagonisti del film di Spike Lee. Un film che non sia la stessa solfa retorica di Rambo o l’ennesimo tentativo di Hollywood di cambiare la storia e vincere la guerra in Vietnam.

E infatti Da 5 Bloods – Come fratelli è molto lontano da quel tipo di war movie. È una grande protesta che raccoglie l’eredità di BlacKkKlansman ma la trasla su un terreno ancora più scivoloso rispetto agli anni Settanta: la giungla vietnamita, il PTSD (sindrome postraumatica da stress). Ma soprattutto la certezza di aver combattuto per un Paese che continua a rifiutare i tuoi stessi diritti civili.

Da 5 Bloods - Come fratelli (2020), Spike Lee - Ph. credit: IMDB.com
Da 5 Bloods – Come fratelli (2020), Spike Lee – Ph. credit: IMDB.com

“Da 5 Bloods”, una storia di riscatto

La storia inizia quando quattro veterani afroamericani decidono di tornare in Vietnam per recuperare i resti del loro comandante, Stormin’ Norman (Chadwick Boseman) e un inestimabile tesoro in lingotti d’oro. Proprio Norman, prima di morire, aveva deciso di sottrarlo alla CIA e usarlo per “risarcire” il popolo afroamericano. Per la sua indole, carismatica e razionale, pacifica ma risoluta, Norman viene definito il Martin e il Malcom del gruppo. È il grande leader e il grande eroe a cui tutti fanno costante riferimento anche dopo decenni dalla guerra e i cui insegnamenti riecheggiano ancora nelle loro vite.

Spike Lee sulla scelta dell’interprete di Stormin Norma ha affermato:

Questo personaggio è eroico, è un supereroe. Chi scegliamo per rappresentarlo? Scegliamo Jackie Robinson, James Brown, Thurgood Marshall e T’Challa (i maggiori ruoli di Boseman, ndr). Chad è un supereroe. (…) I fratelli parlano di lui con reverenza. Lui era il loro supereroe. E quel personaggio è cristologico. Basta guardare la fotografia (di Newton Thomas Sigel), c’è una luce divina su di lui.

Chadwick Boseman in Da 5 Bloods - Ph. credit: web
Chadwick Boseman in Da 5 Bloods – Ph. credit: web

Una lezione di storia dalla prospettiva afroamericana

Spike Lee, tuttavia, non si limita a presentare le coordinate della trama. Nei primi minuti, come in BlacKkKlansman, inserisce un prologo che immediatamente fa intuire la chiave di lettura politicamente impegnata del film. L’azione e la ricerca del tesoro non sono che un diversivo per parlare di come e quanto le istituzioni statunitensi abbiano ulteriormente danneggiato la comunità afroamericana con questa guerra mai finita. Ancora pulsante nella mente di chi resta.

Ecco quindi comparire i volti e le parole di Malcom X, Angela Davis, Kwame Ture e Bobby Seale (fondatore delle Black Panthers insieme a Huey P. Newton). Alla fine degli anni Sessanta, infatti, la guerra in Vietnam assume come non mai elementi di assurdità per il popolo afroamericano. Nel 1968, quando il Dr. King muore assassinato, le manifestazioni infuocano l’intero Paese, ma come afferma Lee, gran parte dei giovani uomini neri è dall’altra parte del mondo, a morire in fanteria. A combattere in prima linea per un Paese che non li rispetta nemmeno come esseri umani, oltre che cittadini legittimi.

Una scena di Da 5 Bloods - Ph. credit: web
Una scena di Da 5 Bloods – Ph. credit: web

Non è la prima volta che Lee affronta questo spinoso discorso. Aveva già introdotto il paradosso delle guerre del Novecento in Miracolo a Sant’Anna (2008). In quel caso, però, aveva calpestato un terreno poco familiare e molto delicato: l’opera dei partigiani italiani durante l’occupazione nazifascista. In Da 5 Bloods non commette lo stesso errore e si focalizza solo su ciò che conosce meglio, ossia gli strascichi della guerra nel presente afroamericano.

Il contenuto e il messaggio sono quindi molto chiari, anzi sono in un certo senso un opposta e metaforica chiamata alle armi del popolo afroamericano. Non a caso verso la fine compare in maniera diretta il riferimento all’organizzazione Black Lives Matter. Il valore del film, tuttavia, risiede soprattutto nella sua forma, che è anche la vera firma di Spike Lee.

Parte del tributo di Spike Lee a Black Lives Matter in Da 5 Bloods - Ph. credits: web
Parte del tributo di Spike Lee a Black Lives Matter in Da 5 Bloods – Ph. credits: web

A Spike Lee Joint, uno stile inconfondibile

Oltre il suo inconfondibile double dolly finale, ossia l’inquadratura in cui sembra che i personaggi galleggino nell’aria, Lee rielabora il lavoro grafico già visto in BlacKkKlansman inserendo per esempio molti frame estemporanei. Immagini fisse che fermano il tempo del racconto e ne sottolineano i momenti più importanti, quelli in cui è necessario ascoltare.

Inoltre, proprio perché alcuni stralci della storia sono ambientati nel ’68, Lee opta per una doppia aspect ratio per distinguere nettamente le fasce temporali. I flashback risultano in 4:3 e per insistenza del regista sono stati girati in pellicola 16 mm. Motivo per cui, fra gli altri, il film è costato più di 35 milioni a Netflix.

Chadwick Boseman in un frame di Da 5 Bloods girato in 16 mm - Ph. credit: web
Chadwick Boseman in un frame di Da 5 Bloods girato in 16 mm – Ph. credit: web

La pellicola 16mm, quella dell’attrezzatura leggera, crea un forte effetto di immediatezza documentaria, nel centro dell’azione. Contemporaneamente però è anche un formato legato alle immagini amatoriali e personali, quindi ai ricordi: ottimo per raccontare la storia di Stormin’ Norman e conferirgli un’aura ancora più regale.

Paul e gli uomini fatti a pezzi dal sistema

Una menzione speciale merita il personaggio di Paul e di conseguenza l’interpretazione di Delroy Lindo. Spike Lee racchiude in Paul molte contraddizioni e molti traumi, molto più che negli altri protagonisti. Viene presentato come l’afroamericano che ha votato per Trump, un concentrato di stereotipi che vanno dall’atteggiamento violento al rifiuto della paternità e delle responsabilità.

Il monologo di Paul (Delroy Lindo) - Ph. credit: web
Il monologo di Paul (Delroy Lindo) – Ph. credit: web

Nel viaggio viene infatti affiancato dal giovane figlio David (Jonathan Majors) che si unisce alla spedizione, preoccupato per il padre ma che viene da lui costantemente allontanato. In realtà Paul è semplicemente il più disilluso ed è fra tutti l’uomo più distrutto dal sistema, è letteralmente a pezzi per ciò che ha visto e ha fatto in Vietnam, per chi non è riuscito a diventare dopo quella tremenda guerra.

È inoltre colui che fra tutti nasconde i segreti più grandi e dolorosi. Ma Spike Lee, da grande regista qual è, aspetta a rivelarcelo fino alla fine, lasciando che sia Paul stesso a confessarci tutto in un incredibile monologo in macchina. Uno dei momenti più interessanti dell’intero film, che in sé è un’opera epica in cinque atti, una struttura inusuale che sia adatta perfettamente a questo film, riuscendo a raccontare più storie in una.

Articolo di Valeria Verbaro

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