L’attenzione all’inclusività è un elemento cardine del mondo della bellezza. Molti brand hanno previsto palette di prodotti per tutti i tipi di incarnato, si parla di color carne nude e neutro per comprendere i toni della pelle, ma siamo sicuri che il linguaggio utilizzato nel mondo cosmetico sia giusto?
L’universo beauty rappresenta la bellezza in tutte le sue sfaccettature, infatti è uno dei mondi in cui si mira a non escludere nessuno in base al tono della pelle. Moltissimi brand hanno lanciato linee di correttori, fondotinta, prodotti per il contouring e rossetti dall’ampia palette di colori, per adattarsi a ogni tipologia di incarnato. Nonostante questa varietà, dobbiamo pensare a uno strato ulteriore che ha molta importanza nel fare la differenza: il linguaggio che usiamo.
Questa consapevolezza è nata dalla campagna di advocacy Color Carne che vuole catturare l’attenzione sui temi riguardanti il colore della pelle e il rispetto delle differenze di ognuno in tutti i settori in cui è possibile rappresentare in modo più simile possibile le varie tonalità di incarnato.
Tutto nacque da una domanda: ma di che colore è il color carne? I vocabolari dicono che il color carne “è simile al colore della carne umana”, ma veramente il colore della carne umana è solo rosa? Questa affermazione ci fa pensare a quante parole nel nostro vocabolario hanno dei pregiudizi che però una volta individuati abbiamo sempre il potere di cambiarli.
Questo progetto strabiliante in cui si vuole cambiare la percezione sul color carne nasce dalla strategist Giuditta Rossi, donna di carnagione scura, e la storyteller Cristina Maurelli, donna di carnagione chiara, che un giorno per caso e con sorpresa realizzano questa assurdità nell’uso del termine, e decidono di agire di conseguenza. Insieme le due donne decidono di cambiare colore al color carne, da rosa a tutti i colori dell’umanità, portando tutti a fare una riflessione anche sulla rappresentazione di termini come nude e neutro.
Per definizione il color carne è il rosa, una percezione che presuppone spesso inconsciamente che la pelle di una persona bianca sia la normalità, quando naturalmente il color carne non significa solo un colore.
E’ molto bello come questa campagna ha avuto un grande supporto mediatico, infatti le influencer, le organizzazioni, le associazioni, insieme a molte persone hanno appoggiato e aderito in maniera molto entusiasmante a questo progetto. Chi vuole partecipare può andare sul sito colorcarne.it o sui canali social di Color Carne Project e scegliere una delle originali card da condividere, che sono gia compilate con immagine, grafica e messaggio.
E’ interessante come il sito propone un “colorimetro” con i colori dell’umanità, un modo per ispirarsi e approfondire dei casi di studio e tool che mostrano il modo in cui questa tematica viene affrontata nel mondo e tutti i suoi settori, partendo dall’editoria, ai progetti artistici e ai prodotti cosmetici.
Giuditta Rossi afferma come “in questo caso parliamo di discriminazione sul colore della pelle, ma lo stesso vale per tutte le categorie sotto rappresentate. Color Carne può diventare il punto di incontro per chi vuole costruire una società in cui la diversità venga valorizzata e in cui ogni persona sia in grado di riconoscersi”. Continua la collega Cristina Maurelli che “ll nostro progetto diventa l’occasione per immaginare un modo diverso e di pensare, parlare, agire e anche di fare business”.
Color Carne vuole essere una vera e propria dimostrazione di come alcuni concetti che in superficie sembrano essere inoffensivi, come in particolare il linguaggio e le rappresentazioni visive, in realtà nascondono pregiudizi e discriminazioni. Questo progetto è anche la manifestazione che basta veramente poco per svelare e cambiare il punto di vista degli altri, e che bisogna comunque far attenzione all’uso del nostro vocabolario. I termini a noi affidati oggi possono essere superficiali e noi dobbiamo avere la forza di riuscire a vedere oltre la parola e capirne il vero significato dietro.
La campagna ha l’intento di amplificare questo argomento anche in Italia, sensibilizzando non solo le persone ma anche gli editori e i brand a rendersi conto del linguaggio che usano, portandoli a fare un passo avanti significativo che può far la differenza. Cambiando il vocabolario mediatico e pensando a nuovi prodotti inclusivi può portare un mutamento di linguaggio e della nostra cultura, arrivando quindi ad uno strato sempre più ulteriore d’inclusività.
15 Marzo
Valeria Muratori