Sovraffollamento, malfunzionamenti, carenza di personale. Questi sono solo alcuni dei problemi che riguardano le carceri italiane. Quando poi chi vi è rinchiuso è donna, a questi si aggiungono anche diversi problemi di genere. Anche la prigione infatti appartiene a quella serie di realtà che prende a riferimento il maschile, e solo questo. Le carceri non sono posti per donne, e non perché quest’ultime siano troppo deboli per poter sostenere una detenzione o perché debbano, in un atto di umiliante pietas, essere giustificate, ma perché le carceri non sono a loro misura. E manca anche qualcuno che lotti per le donne in carcere, da fuori le mura.
Dati e vita delle donne in carcere
Il 31 marzo di quest’anno erano 2.276 le donne presenti negli istituti penitenziari del Paese, ossia il 4,2% del totale dei detenuti. Un numero che negli ultimi due anni ha più o meno oscillato, mantenendosi comunque costante. Di queste donne in carcere solo 576 sono state ospitate nelle 4 prigioni esclusivamente femminili del territorio: 321 e 146 rispettivamente nelle due Case a Roma (“Rebibbia”) e Pozzuoli e 64 e 45 in quelle di Trani e Venezia (“Giudecca”). Solamente 8 invece nell’Istituto a custodia attenuata (Icam) per madri detenute, recluse con i propri figli minori di 3 anni. Le altre donne invece divise nelle 46 sezioni femminili di carceri maschili.
La vita in istituti pensati e fruiti per la maggior parte da uomini è, com’è immaginabile, complessa. Le donne hanno bisogni specifici che non sempre trovano risposta. Solo il 62,5% delle carceri visitate dall’associazione Antigone disponeva di un servizio di ginecologia, mentre il 21,7% di quello di ostetricia. Solo nel 58,3% dei casi, poi, nelle celle era presente il bidet, disposto dal regolamento di esecuzione da più di vent’anni.
Come possono le donne in carcere ottenere i servizi necessari?
Semplicemente, basterebbe implementare i servizi per le donne, a prescindere da quante ne siano detenute. In realtà, però, vige una specie di rapporto proporzionale: più il numero di donne in carcere aumenta e più c’è possibilità che questo accada. Si consideri però i casi della Casa di Reclusione di Paliano o di quella Circondariale di Mantova, dove sono presenti rispettivamente solo 3 donne su 70 detenuti e 5 su 130.
Da un estremo all’altro: a eccezione di quella di Venezia, le carceri femminili del Paese sono sovraffollate: Trani con il 140,6%, Pozzuoli con il 139% e Rebibbia femminile con il 123,5% di detenute. Delle donne in carcere dall’inizio del 2022, il 31,9%, ossia 727 detenute, è di origine straniera. Per loro, il pericolo di una marginalizzazione è ancora maggiore, con la barriera linguistica come ennesimo limite invalicabile.
E per le detenute si fa poco anche fuori
Secondo un sondaggio di “Women Beyond Walls”, il 70% dei gruppi che lavorano con le donne in carcere non riceve fondi dalle associazioni femministe e più di un quarto ha affermato di non garantire di poter continuare a operare a causa della mancanza di fondi. La ragione è spiacevole, ma ben si accorda con una realtà sempre più orientata al mostrare felicità, benessere e perfezione: le donne in carcere sono figure controverse e, per usare un prestito dalla televisione, “non fanno ascolto”.
A spiegarlo Sabrina Mahtani, fondatrice di “Women Beyond Walls”. In genere c’è una percezione negativa delle donne in carcere e delle detenute, ed è questa percezione che rende difficile alla società sostenerle, affiancarle. La questione del crimine non è mai un interesse per la maggior parte dei donatori o finanziatori aziendali, che per la maggior parte scelgono di non associare il proprio nome alle carceri”. Una questione di immagine, dunque. Ma allora di quale femminismo stiamo parlando? Come può un gruppo femminista definirsi tale, se poi non assolve al valore fondante del femminismo stesso? Se poi si preferisce abbandonare queste donne, disinteressarsi, che aiutarle a liberarsi e combattere con e anche per loro l’oppressione di genere?
Sara Rossi