Essere madre dietro le sbarre

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Di Redazione Metropolitan

Una detenuta del carcere di Rebibbia ha cercato di uccidere i suoi due figli. Uno è morto, l’altro è ricoverato in codice rosso al Bambin Gesù. Essere madre dietro le sbarre, una realtà che pochi conoscono ma che in Italia è molto diffusa. Questo perchè non esistono leggi che impediscano ad un bambino di stare in carcere e di essere un detenuto a tutti gli effetti. Oggi il sopralluogo del Ministro della Giustizia Bonafede, sperando che il cambiamento invocato dal Governo passi anche dalle patrie galere. Fino ad ora gli unici a tenere il faro puntato sulla questione sono stati i Radicali. 

(Foto dal web)

I bambini attualmente nelle carceri italiane sono circa 60, di cui 15 proprio a Rebibbia. Nonostante le dichiarazioni dell’ex Ministro della Giustizia Orlando che, appena insediatosi dichiarava: “entro il 2015 non ci saranno più bambini in carcere”. Siamo nel 2018 e non solo ci sono bambini ma, da ieri purtroppo ne manca uno all’appello, vittima di un disagio che la detenzione ha sicuramente accentuato. A far riflettere è il fatto che il delitto sia avvenuto nella struttura di Rebibbia, giudicata positivamente per la gestione della direttrice. Come troppo spesso capita, la realtà del carcere cambia a seconda del luogo e di chi lo amministra e, come in questo caso, può anche non far differenza. Al di la dello sgomento che può scaturire da questo fatto di cronaca, la tematica deve essere affrontata per gradi. La parola chiave per trattare questo tema è “vulnerabilità”.

Le madri dietro le sbarre sono vulnerabili tre volte. Vulnerabili in quanto detenute, vulnerabili in quanto donne e vulnerabili in quanto madri. Sul primo punto non c’è molto da aggiungere, ovviamente la condizione di detenuto è di per se vulnerabile, in particolar modo in Italia, dove il sovraffollamento endemico degli istituti ci è costato più volte il richiamo dell’Unione Europea. Le donne detenute sono doppiamente vulnerabili a causa della scarsità di strutture a loro dedicate. Si pensi che in Italia sono solo quattro le carceri femminili. Ciò si traduce in detenzioni lontano da casa, con conseguente impossibilità di visite che si ripercuote sulla reale funzione della pena, riabilitare la persona.

Ci sono ovviamente delle sezioni femminili all’interno delle carceri maschili. Troppo spesso però il numero delle donne è talmente esiguo da non influire nell’amministrazione carceraria. A Nuoro in questo momento sono detenute solo tre donne, a fronte di circa 140 uomini, va da se che la considerazione verso le loro necessità sia pari a zero. Vulnerabili in quanto madri. Le detenute che sono “accompagnate dai loro figli durante la pena sono per la terza volta vulnerabili. Sono madri che non hanno alternative, i cui figli sono affidati a loro dal giudice in mancanza di un’alternativa all’esterno della struttura penitenziaria. In questo caso il bambino, pur non essendo colpevole di alcun reato, diventa di fatto un detenuto. Potrebbe lasciare il carcere in ogni momento ma, di nuovo, il compito è affidato alle associazioni, con tutte le mancanze di mezzi e personale che ne consegue.

Una di queste è “La casa di Leda”, associazione romana che opera principalmente nel carcere di Rebibbia. Specializzata sul tema dei “bambini detenuti”, gestisce il nido di Rebibbia e i laboratori di musicoterapia, oltre che portare in “gita” i bambini il sabato. Per quanto ammirabile, ovviamente un’associazione non può avere le risorse per risolvere il problema. Il tema deve essere affrontato a livello legislativo, cosa alquanto complessa. Se da una parte occorre tutelare maggiormente le madri detenute, dall’altra non si può pensare di garantire l’impunità a tutte le donne con un figlio a carico. Questo perchè i primi esperti delle leggi italiane sono proprio le organizzazioni criminali. Di conseguenza sfrutterebbero ciò coinvolgendo le donne in cinta o con figli piccoli nelle loro attività criminali ( corriere per il trasporto di stupefacenti).

Risolvere questo problema necessita investimenti economici: costruzione di nuove strutture, formazione di personale “ad hoc”. Il sentimento che passa da qualche tempo è che sia inutile investire sui detenuti, sugli scarti. Dal caso Cucchi (era un drogato, non mi interessa, meglio perderlo che spendere soldi per riabilitarlo) all’indifferenza che presto cadrà su questo caso del bambino morto a Rebibbia. Due casi apparentemente lontani, accumunati però da un fatto, il perdere la vita nelle mani dello stato. A chi considera gli investimenti sui detenuti uno spreco di risorse si può rispondere in due modi. Ci sarebbe quello di ricordare che una vita è una vita al di la di tutto ma non troverebbe sponde ne troppe orecchie tese.

Photo Credits: (www.giustizia.it)

E poi c’è l’aspetto economico, quello più caro (giustamente) al contribuente buon padre di famiglia nostrano. Il detenuto costa alla collettività circa 124 euro (dati del 2013), il costo di ogni carcerato è in diminuzione, questo perchè aumentano le detenzioni ma non i fondi destinati alla gestione delle stesse. Questa mancanza si traduce in un sovraffollamento eccessivo. Il 31 Dicembre del 2017 erano detenuti 57.608, a fronte di una capienza massima di 50.490. “Peggiore della classe” la Lombardia, regione più sviluppata d’Italia che “vanta” un surplus di detenuti pari a 2.000 unità. Tutto questo per arrivare al dato più significativo, il 68% dei detenuti torna a delinquere, tornando in carcere, tornando ad essere un costo per la comunità, per la seconda volta (se non per la terza). Questo in molti casi avviene perchè il primo principio della detenzione non può essere applicato. La rieducazione del condannato non è possibile a causa di quei mancati investimenti. Come in tutti i campi un mancato investimento oggi si traduce con una spesa maggiore nel futuro, destinata a crescere se non si inverte la rotta. Ed ecco che magicamente dovrebbe iniziare a interessare anche chi con il carcere non ha mai avuto niente a che fare, chi lo considera un luogo lontano. 

Costituzione della Repubblica Italiana

Tratto dall’articolo 27:

Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato .