Uno degli errori più grandi che un artista può fare è quello di anteporre l’esaltazione del suo talento alla volontà di dire qualcosa. Se qualcuno doveva raccontare Elvis Presley quello non poteva che essere Baz Luhrmann, autore che si contraddistingue fin dai suoi primissimi film per uno stile riconoscibile e dal forte impatto estetico. Chi può raccontare il re di Las Vegas, l’icona trasgressiva meglio di uno che fa dell’eccesso, del trionfo barocco la sua firma autoriale? Per questo sulla carta il matrimonio tra i due sembrava un’eccellente idea che, purtroppo, non ha trovato nel corso della visione della pellicola il riscontro che meritava.
Nonostante riceva inspiegabilmente otto candidature agli Oscar 2023, Elvis risulta essere il più debole prodotto dedicato alla storia di un’icona della musica. A voler ricalcare i passi di Bryan Singer e Rami Malek in Bohemian Rapsody (film che ha consegnato il primo Oscar a Malek), Baz Luhrmann perde l’elemento più prezioso del racconto: la volontà di ridare spessore e dignità a un personaggio iconico.
Elvis: qualcosa è andato storto
Non è facile sviluppare dei film quando i suoi protagonisti viaggiano nelle aspettative del pubblico mille anni in avanti. Va considerato anche il fatto che queste icone non sono mai state avvinte dalla morte e che le loro personalità riescono a parlare, ad avere potere decisionale rispetto a come si deve fare cosa. Non è appunto un caso che proprio Baz Luhrmann sia stato chiamato a dirigere un film su Elvis (interpretato da Austin Butler). Eppure il regista decide di prendere la storia da un nuovo punto di vista e concentrarsi sul difficile rapporto che si sviluppa tra Elvis e il suo manager, il Colonnello Tom Parker (Tom Hanks); decidendo di raccontare la storia attraverso la voce narrante di quest’ultimo. Non è dato capire la finalità di questa scelta, perché neanche nei secondi finali ne acquisisce un senso.
Oltre che raccontare gli anni dell’ascesa di Elvis, Luhrmann decide di svelare i retroscena più controversi spingendo l’acceleratore sulla manipolazione del Colonnello e non sui suoi abusi, sul suo rapporto con Priscilla, sul suo amore per Lisa Marie oppure, meglio ancora, sull’annosa questione del ricatto morale dei suoi familiari. Eppure nella sua pellicola Luhrmann decide deliberatamente di gettare un’ombra rispetto alla lucidità del suo protagonista, rispetto alla sua dipendenza verso l’amore del pubblico, rispetto al valore che gli attribuiva. Lungi da me sviscerare delle considerazioni rispetto alle convinzioni di Elvis Presley ma la questione annosa rimane quella di scoprire la ragione per cui un regista decida di perdurare un’idea così controversa.
Elvis, la sfida alle convenzioni
Non era forse più interessante raccontare un Elvis introspettivo? Concentrarsi sulla continua volontà di sfidare le convenzioni o assecondarle? Perché non raccontare le contraddizioni dell’uomo dietro all’icona come hanno fatto Bohemian Rapsody, I’m Not There, Ray e Straight Outta Compton (per citarne alcuni). La sensazione è che a un ottimo svolgimento del compito non corrisponda una vera e propria rielaborazione emotiva, per cui alla fine Elvis risulta essere un bel film che racconta Elvis Presley esattamente come ci si aspetta venga raccontato. Al punto tale che, forse intenzionalmente o forse no, il talento registico di Baz Luhrmann surclassa la storia dell’icona.
Meglio ancora Elvis si presenta come uno di quei casi in cui l’incontro e lo scontro con un artista di questa portata è destinato a essere sempre perduto. Nella complessità e nel mistero in cui Elvis era avvolto permane l’indisponibilità a poter essere raccontato da nessun altro, se non da se stesso.
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Benedetta Vicanolo