Attore teatrale e mimo francese, Etienne Decroux è considerato il padre del mimo moderno. La sua importanza nella storia del Teatro occidentale è legata solo all’imprescindibile ruolo di insegnante o fondatore di una scuola, ma anche all’elaborazione una grammatica corporale dell’attore, trascritta nel trattato Il mimo corporale drammatico.
Cadenza, si flette, dispiega.
Subisce il contraccolpo dell’immaginario, le sue dimensioni, le sue linee.
Mostra, il mimo, ciò che ha nel ventre; alla luce offre il suo corpo per poi curvarsi fra gli spigoli d’ombra.
Una ricerca feroce quella di Etienne Decroux, maestro del gesto, atleta del cuore.

Allievo di Copeau, poi di Dullin, si mostra linguista esperto nell’elaborazione di un alfabeto nuovo che fa del corpo ideogramma tonante.
Si scompone, si libra, interiorizza la spazialità boschiva della scena,il suo muto discorrere nell’universo di segni.
Mimo come mimesi, mimesi come ruggito, caverna ancestrale dell’atto, dell’uomo.
L’attore realizza la sua pantomima, si riappropria di una fisicità che è linfa prima del teatro stesso, che ne è pura connaturazione.
Un corpo che pensa, che si china sotto il peso dell’aere, che assorbe, formula oggetti e paesaggi, che trascina se stesso nell’invisibile struggenza.

Un subitaneo bussare esercita la sua ridondanza allo schiudersi del sipario di “L’usine” ( 1961).
Stagliate sul pallido sfondo, tre sagome nere soggiogate dalla scansione, dal meccanico dinamismo.
Non emettono suono, eppure il suono emette loro, appiattisce le loro volontà nel vortice sincronico, nel ritmo.
Ritmi e contrappassi anche ne “Le duo amoreux” (1960).
Sagome bianche ora, su sfondo nero.
Contorsionisti in preda a languide scissioni.
Sovrapposizioni.
Ricongiungimenti.
Una nudità essenziale, forse esistenziale, la danza degli amanti.
Evoca forse quell’altalenanza che in noi divide e stringe, il mistero fragile, lo spettro volubile di ciò che ci unisce.

Anche le ombre si fanno suggeritrici di senso.
Nel doppio gioco mimetico, riproducono la διναμις delle sagome.
E’ la volta di “La Statue”, muta diatriba tra poli distanti.
Un’uomo piegato su se stesso. Un uomo nero avvinghiato al suo silenzio.
Un bianco femmineo motore d’allerta, manichino voluttuoso, flessuoso, obliquo, esorta al tremore.
Sulla scia delle avanguardie storiche del primo Novecento, quella dell’attore francese si pone come esplorazione forsennata, diretta alla purezza delle forme.
Un tentativo rigoroso quanto vitale, esercizio ininterrotto che recupera, modula, reinterpreta il bagliore d’un classicismo perduto.
Giorgia Leuratti